25 novembre 2013 La pedagogia di Dio nella tradizione giudaico-cristiana.

Conferenza di fra Salvatore Frigerio della comunità Camandolese dell'Eremo di Montegiove di Fano (PU) 
Quanto segue è la trascrizione della conferenza tenuta da Salvatore Frigerio, ma non rivista dallo stesso. Pertanto si chiede al lettore di tenerne conto, cogliendo il messaggio che viene comunicato, al di là delle forme e delle modalità con le quali esso è stato trasmesso. In una trascrizione non è possibile infatti rendere il tono della voce, la gestualità, le espressioni di colui che parla, inoltre alcune espressioni possono essere facilmente fraintese da chi trascrive il testo.
Trasposizione da audio/registrazione compiuta da Silvio e amici di Monte Giove - Fano.

Si tenga anche presente che lingua parlata è diversa dalla scritta, la punteggiatura è stata posizionata ad orecchio; i punti in cui la registrazione è incomprensibile sono indicati così: (.?.). 


   Buona sera, grazie della vostra pazienza che mi offrite sempre. Non è certo facile nell’arco di una relazione percorrere il cammino biblico che racconta l’azione educativa di Dio, il Dio d’Israele nei confronti del suo popolo. Metto sempre il verbo “raccontare” (tra virgolette) perché abbiamo già detto tante altre volte che la bibbia non ci dà assolutamente dei trattati, definizioni, ma ci “racconta” perché è un libro non filosofico, ma esistenziale. Si tratta del racconto di un Dio che è saldamente fedele all’uomo, nonostante l’uomo. Possiamo già vederne il segno in Osea cap. 11 “Io tendo continuamente le mani ad un popolo che non le vuole afferrare” però lui le tende continuamente. È il racconto di un Dio irriducibilmente e provocatoriamente paziente nei confronti dell’uomo, che è lento ad accettare di essere amato e salvato; di un Dio maestro paziente.  Pietro nella sua seconda lettera ci dice che Dio è paziente e attende affinché tutti si possano salvare. Non è il Dio che se sbagliamo ci punisce, queste sono invenzioni pretesche, ma è un Dio che quando sbagliamo si mette in attesa che capiamo di aver sbagliato; questa è la sua pedagogia, farci crescere, avere la pazienza di rispettarci anche nel nostro errore, affinché diventiamo adulti, anche se moriamo a 120 anni abbiamo sempre tempo di diventare ulteriormente adulti. Questo Dio paziente che, nonostante le manchevolezze e le ricadute proprie della fragilità umana, torna senza soste ad interpellare l’uomo, ogni uomo e tutto un popolo nel segreto del cuore. Un Dio maestro amorevole e al contempo sommamente rispettoso delle scelte personali e sociali: volete sbagliare, fatelo! A Dio non interessano i nostri peccati, interessa che ce ne rendiamo conto. Dobbiamo rovesciare molto delle nostre categorie religiose, di fronte alla Scrittura.


   Significativo è il cantico di Mosè che troviamo in Deuteronomio 32,10)Egli, parla del Santo, il Kadosh, Dio, lo trovò in terra deserta, in una landa d’ululati e di desolazione, lo educò, ne ebbe cura, lo allevò, possiamo tradurre dall’ebraico anche lo circondò, lo custodì come pupilla dei suoi occhi. 11) Come aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, Egli spiegò le sue ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali, 12) Il Signore lo guidò da solo non c’era con Lui alcun dio straniero”.  L’azione educativa come quella di Dio, comporta dei momenti di rottura con il passato; l’uscita dalla terra deserta, dalla landa di ululati solitari, si compie attraverso una crescita progressiva, propiziata da gesti di attenzione e di amore: Lo educò, ne ebbe cura, lo custodì (o meglio dicevo) lo circondò; comporta una profonda elevazione dello spirito: Lo sollevò sulle sue ali; esige una fiducia assoluta e incondizionata: Lo guidò da solo, non c’era con Lui alcun dio straniero. Tutti i libri del Primo Testamento registrano e meditano il rapporto drammatico tra Dio fedele, appassionatamente misericordioso, viscerale (la misericordia in ebraico parla di visceralità, poi ritorneremo su questo termine) nei confronti del suo popolo, dell’Israele dalla dura cervice e sclerocardico. Quando noi traduciamo durezza di cuore, il greco traduce esattamente l’ebraico e dice: sclerocardia, cioè sclerosi della coscienza, coscienze sclerotizzate. Questo Dio sempre tentato dalle idolatrie circostanti, che scatenano la gelosia del Dio fedele alla promessa. Le grandi gelosie di Dio, che è fedele alla promessa, mentre le nostre sclerocardie costituiscono un processo educativo irto di difficoltà, di resistenze, di scontri, di rifiuti, di atteggiamenti religiosi ipocriti[È questa la cosa che dà più fastidio a Gesù Cristo], ma anche di abbandoni sinceri, di liberazioni esaltanti, di episodi che segnano autentici salti antropologici per la storia umana, salti sofferti ma vissuti in piena fiducia nella presenza operante del Santo. Ci sono salti antropologici straordinari e nella storia di Abramo e nella storia dell’esodo Babilonese di cui abbiamo parlato la volta scorsa.


   Lungo sarebbe il documentarli tutti, perché richiederebbe la lettura di tutto il Primo Testamento. Basti pensare a Isaia cap. 1,2 contrapposto a 49, perché nei profeti troviamo costantemente questo scontrarsi tra una situazione e l’altra. In Isaia 1,2 si dice: ma dov’è il mio popolo? 3) persino l’asino riconosce la greppia del suo padrone e il bue ne riconosce la voce e voi non mi riconoscete. Tra l’altro è il motivo per cui nel presepio è stato posto l’asino e il bue, che non sono lì per scaldare il bambino (le nostre favole), ma sono lì per rimproverarci. L’asino e il bue lo riconoscono e noi no!  è esattamente il secondo versetto dell’apertura del libro di Isaia; andate a cercarlo, andate a vederlo.

   Poi il cap. 49,15 ma può una madre dimenticare suo figlio? Certo non lo può, perché come la madre non può dimenticare il figlio Io non posso, anche se lo potesse Io non lo posso 16) perché il tuo nome è tatuato sul palmo della mia mano e mi sta sempre davanti. Il rimprovero dell’asino e del bue che lo riconoscono e tu no! ma Io ti porto tatuato sulla mia mano. Abbiamo molte di queste contrapposizioni, in Geremia 2,7 contrapposto a 31; in Osea 4, contrapposto a 6 e così via. Potremmo leggerne moltissime, potete voi andare a cercare perché la bibbia va letta, scavata; veramente è qualcosa che dobbiamo guardare come si scavano le pietre preziose e queste che io vi dico sono soltanto alcune pagine, che possono riassumere la straordinaria alternanza del rapporto tra il Santo e il suo popolo.


   La pedagogia del Santo appare evidente nel lasciare che il popolo faccia le sue scelte e solo poi ne capisca la positività o negatività dai risultati. Ripeto: a Dio non interessa che sbagliamo, interessa che capiamo di aver sbagliato dalle conseguenze delle nostre scelte; dopo aver fatto quelle scelte dobbiamo avere la capacità di rileggere le scelte fatte e capire se erano positive o negative. Questo vuol dire crescere, vuol dire mettersi in discussione continuamente, questo è gradito a Lui, che noi prendiamo consapevolezza. Anche questo ci aiuta a capire la bibbia, che è un libro scritto dopo, cioè solo quando le conseguenze hanno fatto capire il valore o il disvalore delle scelte fatte. Per questo ho ricordato sopra il rispetto da parte del Santo delle scelte d’Israele e la pazienza anche se appassionata attesa, della loro comprensione e giudizio da parte di un popolo la cui cultura teocentrica, leggerà i risultati positivi come premio e quelli negativi come castigo di Dio (ma ce li siamo procurati noi). È chiaro che in Israel tutto è riferito a Dio, se Dio mi ha castigato è perché ho sbagliato. No! Sei tu che ti sei castigato, perché hai fatto scelte sbagliate: la scelta è tua, sei tu responsabile della scelta fatta. Noi avevamo sempre l’alibi religioso di incolpare Dio dei nostri errori, incolpare Dio degli sbagli che avevamo fatto noi. È un alibi religioso molto pericoloso  pretendere che Dio faccia quello che noi vogliamo che facesse.


   Il Nuovo Testamento ci apre invece nuovi orizzonti sul volto del Padre e la sua pedagogia è fondata sulla visceralità = la misericordia; noi traduciamo misericordia con una valenza abbastanza paternalistica: non capisce niente. Invece in ebraico misericordia viene da rahamim che significa “viscere e utero”, la visceralità di Dio, Dio che è Padre e Madre. Questa misericordia è resa promotrice del perdono. A questo proposito voglio esaminare con voi due testi evangelici fortemente significativi, il primo è in Luca 15 e il secondo in Luca 24, perché il vangelo di Luca è detto il vangelo della misericordia di Dio, oltre ad essere il vangelo dei poveri e il vangelo delle donne.  Vediamo Luca 15, 1-32 il brano che chiamiamo in modo non esatto la parabola  del figliol prodigo, che è un grosso errore, è la parabola del Padre misericordioso. Ora il teologo J. Jeremias scrive che i vangeli sono i racconti della passione preceduti da un’ampia introduzione. La stessa resurrezione ha permesso alla comunità primitiva di comprendere, finalmente, la passione come luogo privilegiato in cui l’amore, la misericordia di Dio, si è manifestato. Abbiamo celebrato ieri la Signoria di Cristo sull’universo, ma è una Signoria rivelata nel modo più scandaloso e inaccettabile possibile, perché nessuna religione accetta la Kenosis, la demolizione di Dio sulla croce. Nessuna religione e anche la nostra fa fatica ad accettarla, indora molto la pillola; ma la nostra fede, non la nostra religione, ma la nostra fede nasce da uno scandalo teologico, da un vero scandalo teologico, la scarnificazione di Dio sulla croce. Ripeto: nessuna religione può accettare questo e anche la nostra fa fatica ad accettarla. Certe croce d’oro appese al collo …. .


  Ciò basta per spiegare come la passione del Cristo sia stata ricordata non solo in alcuni aspetti salienti, ma anche nei particolari minuti ed è su questo che si fermano gli apostoli, gli scrittori dei vangeli, gli agiografi, è su questo che si fermano. I primi cristiani vivevano una meraviglia quasi incredula, fatta di profondo stupore, Dio ci ha amati fino a questo punto! Ora proprio questo punto è il culmine che rende compiuto tutto l’insegnamento di Gesù, che è raccolto, come dicevo prima nell’ampia introduzione. Ma se Cristo non fosse morto e poi risorto, tutto quello che c’era prima sarebbe semplicemente l’avventura di uno dei tanti predicatori che percorrevano le strade di Israele in quegli anni.  Sul patibolo, alla porta di Gerusalemme, si è compiuto lo scandalo teologico, luogo privilegiato in cui Dio si è rivelato nella sua natura profonda, l’Agape e nella sua forza vittoriosa, la dinamis che salva. Dinamis che noi traduciamo gloria, ma la gloria non è la gloria del Bernini, con le luci accese e con i fulmini attorno. La gloria è il kabot ebraico, il peso specifico di Dio nella storia, quanto Dio conta nella storia, quanto pesa nel senso di quanto importa, di quanto emerge Dio dentro la storia e quindi la sua forza vittoriosa. È lo scandalo che mette in gioco il modo di concepire Dio e la sua azione salvifica, cioè il suo modo di modellare il nuovo adam, la nuova persona, la nuova umanità: adam non è un maschietto, ma è il venuto dalla madre terra, cioè l’umanità intera. Momento fondamentale di questa rivelazione è 15 di Luca con le tre parabole : il pastore buono che va a cercare la pecora, l’unica pecora perduta; la donna povera che ha perduto la moneta, le è caduta in terra la moneta e deve buttar per aria tutta la casa. [ perché non aveva le piastrelle con la cera, ma pietre accostate e per trovare ciò che cadeva negli interspazi si doveva smontare casa]; poi il Padre misericordioso.


Nella parabola del Padre misericordioso l’insegnamento di Gesù ci consegna il compendio più alto della pedagogia o teologia della misericordia del Padre, che nella croce trova il suo adempimento. Infatti alla richiesta del figlio di avere la sua parte di eredità il testo dice: 15,11 Allora il Padre divise tra loro la vita, noi traduciamo che divise le sostanze, i beni, ma il greco dice bion, bios che significa la vita, non il portafoglio, il Padre divide tra loro la propria vita. La prima considerazione da farsi è che la misericordia di Dio si sperimenta nella condizione di peccato, nella condizione di bisogno di perdono. L’esperienza del male è amara e spogliante, lontano dalla casa del Padre, cioè nello sperpero della condizione di vita (il figlio ha sperperato la sua vita, quella vita che il Padre gli ha consegnato), sperperò la vita non i beni. In questa condizione di sperpero della vita, l’uomo sperimenta la miseria più completa, perché perde tutto. Dice l’evangelista: scialacquò tutto il suo patrimonio vivendo da dissoluto, se siamo coerenti: scialacquò tutta la sua vita; perde la propria terra, va in terra lontana, perde la casa, se ne andò; perde l’identità di uomo libero, diventa guardiano di porci non suoi, cioè si vende; è il vuoto assoluto e soprattutto si deforma dentro di lui l’immagine di Dio, difatti dice: ritornerò e chiederò perdono, gli dirò: trattami come uno dei tuoi servi. Non ha capito niente di suo Padre. Ciò significa che lo sperperatore è convinto di trovare al ritorno un Padre adirato, si avvia verso casa con la disposizione di spirito di chi deve accettare il castigo meritato. Ma quante volte abbiamo detto: stai attento perché Dio non paga solo il sabato. Questo Dio insopportabile, pronto solo a punirci, anche se sbagliamo a starnutire, non c’è nulla di cristiano in questo, nulla di cristiano. Il suo stato d’animo è simile a quello dei protagonisti dell’eden, i quali consumata la disobbedienza si chiedono che cosa penserà Dio di noi? E vanno a nascondersi. La paura di Dio! Ma la paura di Dio è il primo e più deleterio effetto del peccato e purtroppo è una falsa visione religiosa, troppo a lungo prevalsa anche nella nostra Chiesa. La paura di Dio, quel timore di Dio che è diventato, non amore, ma paura, perché il timore di Dio nella Scrittura è atteggiamento di ogni innamorato che ha paura di non essere all’altezza dell’amore che riceve dall’altro. Il timore di non essere capaci di rispondere all’amore che si riceve, noi l’abbiamo trasformato in paura. È la stessa paura di questo figlio che si chiede: come mi discolperò e prepara il discorso da fare al Padre per prevenirne l’ira e mitigarla: mettiamo le mani avanti!


 Ma quando arriva trova il Padre che lo aspetta da sempre e badate che la parola Padre accompagna per ben sette volte il suo cammino di ritorno, andate a rileggerlo: andrò da mio Padre…, nella casa di mio Padre…, dirò a mio Padre…Però non riesce ancora ad accorgersi dell’atteggiamento del Padre, c’è sempre questo: chissà cosa mi farà o cosa mi dirà. Allora quando arriva comincia a recitare il discorso che aveva preparato [l’atto di dolore], non si accorge che il Padre gli sta facendo festa. Perché? Perché ha deformato in sé l’immagine del Padre, un Dio punitivo che è la deformazione della sua immagine. Abbiamo deformato da pagani l’immagine di Dio. Tale deformazione è originata dal peccato, cioè dalla nostra incapacità di amare. Infatti nessun ripensamento iniziale, non dice mi manca l’amore del Padre, ma: non ho più nulla da mangiare, quindi torno dove non mi manca niente. Ritorna perché ha fame, non perché ama. Il medesimo malinteso è presente in ogni uomo che fa l’esperienza del peccato. Badate il peccato, noi parliamo di peccati, ma il peccato è uno solo nella Scrittura, è la pretesa di essere autonomi, la non accettazione della nostra debolezza, la non accettazione del nostro limite, della nostra contingenza, per cui ci autodefiniamo autonomi da Dio, non abbiamo più bisogno di Lui, l’auto -idolatria, sentirsi padroni del mondo, di tante cose e di tanti altri. Questo è il peccato, che è appunto la sclerocardia.  Il dramma della colpa non consiste nella ribellione a Dio, ma nel fatto che alla radice di tutto questo c’è un misconoscimento di chi è il Padre: non ho bisogno di te, della tua paternità, volendo immaginarlo come un despota severo che per il ritorno chiede la contropartita di una umiliante confessione del proprio peccato: bisogna che mi umilio perché Lui mi perdoni.


 Io capisco di aver sbagliato perché Lui mi perdona, perché Lui mi ama, allora capisco di non saper rispondere sufficientemente a quest’amore. L’uomo è diventato incapace di intendere il ritorno come la scoperta di un essere sconosciuto, cioè il cuore del Padre che ama e perciò attende. Dio è paziente e attende perché non vuole che alcuno perisca, ma che tutti giungano alla conversione. Seconda lettera di Pietro, 3,9(sto leggendo la Scrittura che noi abbiamo messo da parte): Dio è paziente e attende perché non vuole che alcuno perisca, ma che tutti giungano alla conversione alla salvezza.  Allora sarà l’iniziativa del Padre a partire prima, in questa splendida parabola del Signore, perché l’uomo ricuperi il vero volto di Dio. La misericordia è l’assurdo atteggiamento dell’amore irrazionale del Padre, perché il Padre non fa conti, il Padre non ragiona con i nostri criteri, il Padre non fa conti, come noi ragionieri, il Padre ama, il Padre è padre e madre insieme, è viscerale. Io parlo sempre della paternità uterina di Dio e nei nostri confronti Dio ragiona con l’utero, se possiamo usare un termine antropologico.


 Anche il figlio osservante, rimasto a casa, pensa che il comportamento del Padre sia assurdo. Il figlio osservante è come gli osservanti che non possono accettare lo sdraiarsi a banchetto del Cristo con gli immondi. Ogni volta che Cristo si sdraiava a banchetto… noi diciamo si è messo a tavola e traduciamo facendo perdere un atteggiamento molto più significativo, - i tavoli non ce li avevano- si sdraiavano sul tappeto uno accanto all’altro per mangiare a banchetto. Se leggiamo il vangelo di Marco i farisei, gli osservanti, rimproverano dicendo: si sdraia a banchetto con i peccatori. Loro invece erano i puri, i farushim,i separati, quelli che avevano il diritto di giudicare tutti, tranne che se stessi. Sono quelli che non possono accettare lo sdraiarsi a banchetto del Cristo con gli immondi e sono pronti alla calunnia come il fratello maggiore. È lui che insinua lo sperpero con le prostitute, è lui che lo dice, inizialmente il testo non lo dice. Il testo dice: Ha sperperato la sua vita, ma il fratello maggiore dice che ha sperperato tutto con le prostitute, è la calunnia, perché non lo accetta come fratello. Dice il testo: 15,30 Questo tuo figlio che ha buttato via tutto con le prostitute, tu gli fai festa? E il Padre gli dice: questo tuo fratello (15,32) era perduto ed è ritornato, era morto ed è risorto. Infatti per le nostre logiche è assurdo il modo con cui il Padre reagisce alle pretese del figlio. Egli rischia tutto, mette in gioco la propria vita, rischiando di non rivedere il figlio che se ne va e di perdere anche quello che ha a casa a servirlo, non ad amarlo, perché dirà: a questo che ha buttato via tutto con le prostitute gli fai festa. A me che ti ho sempre servito, non hai dato neppure un capretto per fare festa con gli amici. Ti ho sempre servito, non dice ti ho sempre amato, è uno schiavo, ha considerato il Padre un padrone, non un padre.  Ma ancor più assurdo è l’atteggiamento del Padre al ritorno del figlio, perché non lo rimprovera, non lo fa ragionare, neppure ascolta la confessione preparata, non gli interessa neppure sapere né perché se ne è andato, né perché è tornato, gli basta che sia tornato.  15,20 Il Padre da lontano lo vide e fremette nelle viscere. Noi traduciamo stupidamente commosso, ma qui c’è viscere e utero, rahamim, fremette nella sua visceralità più profonda, materna e paterna; gli corre incontro e gli cade sul collo - dice il testo greco - e lo bacia Badate, non è il figlio a fremere nelle viscere, ma è il Padre. Non è il figlio a correre, ma il Padre, è sempre il Padre che gli cade addosso e lo bacia e non il figlio.... Sono pagine sulle quali dobbiamo veramente riflettere, perché mettono in discussione tutta una nostra visione giuridica della religione. La fede è un’altra cosa. La fede è liberazione, non è punizione. È chiaro che nel momento in cui Dio è diventato strumento di potere, di una struttura religiosa, allora è bene aver paura di Dio, così obbedisco alla struttura, ma non è più fede cristiana, è neopaganesimo.


 Ascoltiamo Osea 11,7.: Il mio popolo è duro a convertirsi; chiamato a guardare in alto nessuno sa sollevare lo sguardo. 8 Come potrei abbandonarti Efraim? come consegnarti ad altri o Israele? Come potrei trattarti al pari di Admà e ridurti allo stato di Zeboim? città che sono state distrutte, Il mio cuore freme dentro di me, è la visceralità che ritorna, il mio intimo freme di compassione, nel testo ebraico c’è Rahamin, che vuol dire anche il fremito orgasmico, il momento massimo dell’amore totale, anche fisico, delle persone. Si attribuisce a Dio anche questo, perché è il momento massimo del godimento concesso all’uomo e alla donna e si pensa di attribuirlo a Dio, perché non c’è momento più alto. 11,9 Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo;. Le colpe d’Israele provocano una sentenza e la sua esecuzione noi diremmo subito, ma (questi ma straordinari della Scrittura) avviene qualcosa di inatteso e decisivo: in Dio esplode l’amore. Israele non si è convertito verso il suo Dio, ma è Dio che si converte (shuv) verso il suo popolo! Vinto dal suo stesso amore il suo cuore si capovolge, si rovescia, qui viene usato il verbo Habak che descrive le catastrofi. Invece di descrivere la catastrofe d’Israele uguale a quella di Admà e Zeboim, descrive la catastrofe, il crollo del cuore di Dio. Al pensiero che Israele possa rovesciarsi come Sodoma, Gomora, Admà e Zeboim a Dio si rovescia il cuore dal dolore. La misericordia di Dio è questo crollo viscerale verso l’uomo e la donna, quell’uomo e quella donna che ritornano a Lui purtroppo rinchiusi nelle loro grette meschine giustificazioni, come il ragazzo della parabola. Sono sempre meschine le nostre giustificazioni perché cerchiamo sempre di fare (.?.) con le nostre scuse, non dimentichiamo che Dio è troppo impegnato ad amarci per ascoltare le nostre scuse. La misericordia di Dio è viscerale, è una passione che il Signore prova per la nostra storia, non a caso come ho già detto in ebraico per dire misericordia si usa uno termine particolarmente significativo rakamim che è forma plurale comprensiva di viscere e utero, dove la donna custodisce il frutto del suo amore. Il sentimento che la donna ha per il suo bambino è lo stesso che Dio prova per la sua creature. Io amo parlare della paternità uterina di Dio. Infine la misericordia è strettamente legata alla gioia.


 Nell’insieme delle tre parabole ci sono nove espressioni di festa e di gioia: facciamo festa perché ho ritrovato la mia pecora, facciamo festa perché ho ritrovato la mia moneta, facciamo festa perché è tornato vivo, facciamo festa…, quante volte il Padre lo ripete! La parola festa e gioia ritornano per ben nove volte in questo testo. Posso darvi tutti i nove versetti in cui ritorna questa parola e il nove nella simbologia ebraica indica un rovescio di situazione. Dio è colui che rovescia totalmente le situazione create dalle nostre logiche. Il Padre ci ama talmente che non riesce ad accettare che qualcuno dei suoi figli vada perduto, perciò manda suo figlio per cercare e salvare ciò che era perduto (Luca 19,10). J. Jeremias dice: la misericordia di Dio è talmente assurda che la sua gioia nel dare il perdono, è la più grande delle sue gioie. Stupendo lavoro di J. Jeremias, uno dei più grandi teologi luterani. Anche noi non possiamo non gioire quando ci accorgiamo di essere noi l’assillo del Dio custode attento, cercatore instancabile dell’uomo; non possiamo non gioire della sua ricerca di ogni uomo e di ogni donna, iniziata con l’umanità stessa. In Genesi 3,9 dice: Adam dove sei?  Questo Dio che quando l’uomo sbaglia, si mette Lui in cerca. L’uomo e la donna si sono nascosti, Lui li va a cercare, è Lui che viene a cercarci; noi ci nascondiamo o cerchiamo le nostre scuse, Lui ci viene a cercare e continua a cercare fino al suo definitivo frutto, quando si compirà la promessa di Gesù: sì, vengo subito Ap. 22; quando cioè lo spettacolo della croce (Luca 23) diventerà la logica di Dio finalmente assimilata dall’uomo. Allora ecco il capitolo 24 di Luca.


Questo testo di Luca è fondamentale per comprendere le dinamiche che insieme determinano ed esprimono l’esperienza della resurrezione vissuta dalla comunità, e in essa e con essa dal singolo credente. Inoltre ci consegna uno straordinario saggio sulla pedagogia del Risorto. L’episodio dei discepoli che fuggono, che se ne vanno da Gerusalemme diretti verso la loro casa in Emmaus. Il testo collega strettamente i due scritti di Luca, vale a dire il vangelo di Gesù e il vangelo dello Spirito Santo, cioè gli Atti degli Apostoli, che sono la continuazione nella Chiesa e nel tempo dell’esperienza del Cristo. In questa pagina è già tracciata la parabola del cammino di fede della comunità dei credenti, ripresa e vitalmente sviluppata poi dagli Atti. L’opera di Luca è un’opera unica, noi distinguiamo il vangelo di Luca e gli Atti degli Apostoli, no! è l’unico scritto di Luca, che non si conclude con la resurrezione del Cristo. Se prendete i due testi, Luca conclude il vangelo con l’assunzione di Gesù nella Gloria del Verbo e riprende gli Atti allo stesso punto, con l’assunzione di Gesù nella Gloria del Verbo, continua con la vita della Chiesa, il vangelo dello Spirito Santo.


Quello stesso giorno, inizia così il testo del racconto. Così lo scrittore colloca l’episodio nel tempo, quello stesso giorno è il giorno della resurrezione, è il primo giorno della settimana, il giorno dopo il settimo, il giorno dopo il sabato. In quello stesso giorno, l’episodio viene fatto nel tempo del Kairos. Il tempo non è più il cronos greco, nemico dell’uomo, ma è il Kairos, l’opportunità di salvezza dell’uomo e della storia, nel giorno della resurrezione. Non è la registrazione di una data, ma è l’annuncio del giorno nuovo, del giorno che chiude il ciclo settenario e apre l’ultimo tempo, l’ottavo, il tempo del Regno, l’Eschaton. Questo non è la fine del mondo, ma è il tempo inaugurato dalla resurrezione, è il nostro tempo, il giorno che tocca le radici dell’esistenza del discepolo e le proietta nell’eterna memoria del mistero pasquale. Noi siamo la memoria del mistero pasquale. Qui inoltre si afferma che la resurrezione è un esodo, cioè è l’uscita dalle forme già date, è la loro trasfigurazione e proiezione nel Regno che ora è venuto e che viene a continuare a venire. Tanto è vero che non lo riconoscono, perché non è il ritorno al già dato, ormai il Cristo risorto appartiene ad una dimensione totalmente spirituale, pneumatologia, trasformato nello spirito santo. È un esodo quindi, ecco che due di loro se ne andavano nello stesso giorno, il loro è un andare via da Gerusalemme la cui struttura religiosa e politica non poteva accettare la novità di un Messia così diverso da quello progettato e atteso dalle speranze del Tempio e del Palazzo. Difatti diranno: noi speravamo che ricostruisse il regno di Israele, il trono di Davide, noi speravamo, nessuno poteva accettare un messia massacrato sulla croce. Quel giorno è un interrogarsi angosciato su quanto è accaduto senza trovare risposta, perché l’ottusità e la durezza di cuore, la sclerocardia, non lo permettono e trasformano quell’esodo in fuga, ma quel giorno diviene un improvviso incontrarsi o meglio, un essere incontrati da Colui che è totalmente nuovo, non riconoscibile nelle forme precedentemente note. Questo totalmente nuovo che converte, che cambia il modo di guardare dentro se stessi, guardare alla storia e ai rapporti che fanno la storia e rende nuovi, diversi e dunque allora capaci di tornare a Gerusalemme per proiettarla verso il compimento che solo il risorto le può riservare.


Allora soffermiamoci a considerare il tracciato di questo esodo, che poi è il nostro esodo e qui vediamo la pedagogia del Risorto. E avvenne che mentre accadde, che mentre discorrevano noi traduciamo normalmente discutevano insieme, ma litigavano tra loro, dice il testo greco, Gesù in persona si accostò e camminava con loro, Luca 24,15. Qui riecheggia quanto Matteo 18,20 aveva già scritto: quando due o più si incontrano in nome mio, Io sto con loro. Camminava con loro, ma Luca va oltre perché non sono due credenti, ma sono due perdenti, sono due delusi, ormai convinti di aver perso del tempo accanto ad un illuso. Sono due angosciati che si dibattono prigionieri delle loro supposizioni, dei loro progetti mancati e dunque incapaci di prestare attenzione ad alcuni segni nuovi. Litigano anche fra di loro, non c’è più armonia neppure tra loro. Luca ci dice che il risorto non è presente solo dove viene invocato con fede, ma è presente ovunque l’uomo si dibatte, geme, ponendosi i suoi infiniti perché. Non a caso il cardinal Martini diceva: io non cerco credenti, cerco pensanti. Papa Francesco ci ripete che la fede pone anche dei dubbi, guai se non avessimo dubbi, perché pretenderemmo di essere superiori a Dio stesso. Paolo VI quando era vescovo a Milano diceva ai giovani: abbiate il coraggio di dubitare, perché il dubbio apre la mente. Non è vero che la fede cancella i dubbi, Cristo li ha avuti fin sulla croce: perché mi hai abbandonato? Il risorto è lì ed è lì per aiutare l’uomo e la donna a togliersi dagli occhi quei presupposti che impediscono di vederlo. Luca dice: ma i loro occhi erano impediti di vederlo, perché erano impediti? Dobbiamo capire questo, perché erano impediti? Egli vuole anzitutto provocare la capacità di ogni uomo e donna di rientrare in se stesso e di prendere coscienza dei propri condizionamenti ed è davvero sorprendente il modo con cui il Risorto non dice, ma fa dire il loro modo di porsi nei confronti dell’evento: perché avete una faccia così triste? Ma come, tu solo non sai che cosa è avvenuto in Gerusalemme? Che cosa è avvenuto? Lo saprà bene Lui che cosa è avvenuto, ma perché? Tirate fuori voi che cosa avete pensato e come avete preso la cosa, prendete coscienza del vostro modo di porvi di fronte a quel mistero, a quello spettacolo.


Non a caso Luca usa un termine, che poi nell’ultima traduzione CEI è saltato, le rabbie mie, perché dice che il popolo stava a guardare quello spettacolo, quella teoria che in greco vuol dire uno spettacolo che vuol dire qualcosa, cercare di capire quello spettacolo. Ecco qui Gesù chiede: cosa avete capito di quello spettacolo? Ma tiratelo fuori voi! Non ve lo dico Io? Questa è la pedagogia, la capacità di aiutare l’altro a prendere coscienza da sé, finché glielo dico io, glielo dico come io vorrei che lui dicesse, le nostre educazioni: imporre agli altri quello che a noi torna giusto.[Quando  mi occupavo di educazione dei giovani, dicevo sempre: imporre ai giovani le nostre esperienze vuol dire dare un pettine a chi non ha capelli]. Noi speravamo che fosse Lui a liberare, naturalmente a modo nostro, Israele. La volontà di costringere Dio dentro i nostri schemi e di farlo esecutore dei nostri progetti non può permetterci di vedere e riconoscere colui che è la totale libertà da quegli schemi e da quei progetti. Di vedere colui che è libero anche dalla propria condizione divina, come ci dice Paolo: pur essendo di natura divina la svuotò fino alla morte, alla morte di croce, un Dio che è libero anche da se stesso, un Dio che non si idolatra, un Dio che è libero anche dalla sua condizione divina, questa è la libertà di Dio. Non è fare ciò che voglio, ma essere libero dai condizionamenti, anche dai condizionamenti miei, per cui capire me stesso vuol dire capire anche quei condizionamenti, che mi impediscono di essere veramente me stesso o me stessa.


Poi altra risposta: 24,22 Alcune donne poi ci hanno stupiti, Luca ha già detto 24,11 che l’annuncio delle donne che hanno visto il Cristo risorto e che erano corse dagli apostoli, è stato preso per vaneggiamento: vaneggiamento di donne, allora come è possibile vedere il Risorto se non accogliamo e ascoltiamo e non ci lasciamo provocare da chi dice cose diverse dalle nostre? Se non ascoltiamo chi dice cose diverse da quelle che noi vorremmo dicesse? Troppo spesso la nostra pretesa di giudizio supera la capacità di ascolto. Quante volte dico che ascoltare è l’arte più difficile che ci sia, perché mentre la persona che mi sta di fronte mi si dice, mi si consegna, io non la sto accogliendo, io sto pensando: dunque lei mi dice così perché probabilmente dietro chi sa che cosa c’è. Io non la sto accogliendo, non la sto ascoltando, ma la sto interpretando, cioè vorrei che fosse come voglio io. Allora diventiamo incapaci di metterci silenziosamente accanto all’uomo o alla donna che si interrogano e rischiamo di giustificarci, definendo vaneggiamenti quegli interrogativi. Soltanto un autentico ascolto della parola di Dio può aiutarci a uscire da un simile inganno. Alla fine Gesù parla quando si sono detti, e lì hanno incominciato a capire, perché finalmente hanno detto che cosa avevano dentro di loro. Gesù glielo ha fatto dire con le loro parole:  24,25 O stolti e tardi di cuore a credere a quanto i profeti hanno annunciato. 27 E incominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegava loro in tutte le Scritture ciò che lo riguardava. Adesso che finalmente vi siete guardati dentro, avete smesso di litigare, avete incominciato a guardarvi dentro e a tirarvi fuori, adesso potete incominciare a capire. Perciò Egli allora si fa chiave di lettura, Egli è la chiave di lettura delle Scritture, Lui parola incarnata rende comprensibile esistenzialmente, cioè vitalmente, tutta la Parola scritta che in Lui ha trovato il suo eschaton, compimento, che non è la fine del mondo ma è il compimento in Cristo, Cristo è il nostro compimento.


Il Risorto si fa pellegrino, si fa esodo con l’uomo e l’adam, l’uomo e la donna nel proprio esodo viene fatto capace di comprendere se stesso e poi di cogliere la sua presenza. Alla sua nuova provocazione fece finta di proseguire, (queste sue provocazioni straordinarie), li provoca, li rimprovera = stolti e tardi di cuore non avete ancora capito,  poi fa finta di andare avanti, badate che era già sorta la stella di Sirio e non si poteva camminare oltre, secondo la legge mosaica. Lui fece finta, provocazione straordinaria, ed essi sentono il bisogno della sua misteriosa compagnia, è un bisogno vago, ancora impacciato, ma desideroso di capire di più, resta con noi è già sorta la stella, non trovano altra scusa, è la Legge che impedisce di andare avanti, non si rendono conto che hanno davanti il totalmente libero dalla Legge. Poi diranno 24,32 Ma non ci ardeva forse il cuore mentre ci parlava? 24,29 Ed Egli - le parole hanno un peso…, sono pietre - entrò per restare con loro. Non entrò per mangiare, ma entrò per restare con loro. Ormai la sua dimora è tra gli uomini, ormai gli uomini sono il luogo della sua presenza. Giustamente in una relazione che avevo chiesto per un incontro a suor Francesca Chiara delle Clarisse di Fabriano, cominciò proprio dicendo: Dio non si trova nei santuari, Dio si trova tra gli uomini e le donne.


Ormai gli uomini sono il luogo della sua presenza, il lento cammino di fede del singolo e della comunità si va compiendo e allo spezzare del pane 24, 30- 31 egli può scomparire dai loro sguardi, perché ormai hanno compreso che Lui è nello spezzare il pane, cioè è nell’accoglienza conviviale e totale dell’altro, accoglienza che nello spezzare il pane trova la sue espressione più vera, più alta, più significante, tanto da divenire segno eminente, addirittura sacramentale. Quando due si incontrano [nel mio nome], Io sto con loro, segno sacramentale della sua presenza. Dovremmo stare qui in ginocchio, uno davanti all’altro perché Lui è qui, perché siamo noi qui in nome suo. Già san Paolo nella prima lettera ai Corinzi, cap. 11, aveva scritto ( ha scritto molto prima di Luca, almeno una trentina d’anni prima), quanto fosse inscindibile nella Cena o nella Mensa del Signore, il rapporto tra la comunità e il Corpo e Sangue del Signore, affermando essere reo di quel Corpo e di quel Sangue chiunque si radunasse senza badare alle condizioni altrui. Badate, noi abbiamo trasformato quel pane consacrato e quel vino consacrato dallo Spirito Santo che è l’Eucarestia, in alibi religioso. Fare la comunione vuol dire mangiare quell’ostia, è uno degli alibi più terribili perché io mi nutro del Corpo e del Sangue di Cristo per diventare parte di quel corpo e fare comunione con i fratelli e le sorelle. Fare la comunione non vuol dire mangiare un’ostia, fare comunione vuol dire nutrirmi del Cristo e diventare carne e sangue di Cristo per fare comunione con i fratelli e le sorelle. Ma le devozioni sono tante volte degli alibi … Posso fare tutte le comunioni che voglio e non accorgermi di chi mi sta accanto, e san Paolo dice non solo non c’è Eucarestia, ma siete rei del corpo e sangue di Cristo. Così finalmente risorti i due discepoli possono ritornare a Gerusalemme, dalla quale si erano allontanati perché custodiva la sepoltura dei loro progetti e a Gerusalemme ritornano ora, annunciando con tutta la comunità ritrovata, l’adempimento del progetto divino, grazie al quale questo giorno è diventato l’apertura dell’oggi eterno, un’apertura alla progettazione inarrestabile della nuova Gerusalemme. Da questo giorno parte l’annuncio salvifico che da Gerusalemme raggiungerà Roma, cioè la città che era considerata allora il cuore e dunque la manifestazione delle genti. In questa pagina Luca fissa l’identità del destino della Chiesa, che è la comunità dei credenti che sono testimoni del Signore risorto e dunque sono i conoscitori della sua pedagogia salvifica. È così che il Padre ci ama e ci salva, grazie al magistero, alla sua pedagogia rivelata in Gesù di Nazzaret.


DOMANDA: Nella parabola di Luca del Figliol prodigo …., volevo sapere perché respingiamo Gesù e non siamo capaci di amarlo? Qual è il problema? 

SALVATORE: Ma forse perché non lo conosciamo sufficientemente, perché l’amore è conoscenza, perché l’amore è esperienza esistenziale, l’amore non è un’idea, è una vita, è un modo di condividere le vite. Io credo che noi abbiamo una grossa responsabilità, quella di avere messo nel cassetto per ottocento anni la Sacra Scrittura, la sua Parola, Lui che è parola incarnata. L’abbiamo messa nel cassetto e l’abbiamo sostituita con le nostre teologie e le nostre filosofie, siamo arrivati a dare, con il Concilio di Trento, con Bellarmino, una definizione di Chiesa veramente eretica in senso molto serio. Bellarmino afferma che la Chiesa è “societas perfecta sine macula” società perfetta senza Peccato, che non può sbagliare. Il che vuol dire che si è messa in proprio, non aveva più bisogno di Dio, era perfetta.  Dio è diventato solo uno strumento di potere clericale e quindi la paura di Dio perché noi potessimo sottostare alla precettistica morale della Chiesa. Oggi tutto questo, grazie al Concilio Vaticano II che sta forse ora riemergendo grazie a Francesco e che ci ha riconsegnato la Scrittura, ma quanto ci vorrà per fare della Scrittura il nostro “accadere”, perché finché rimane nel libro, rimane lì è un libro, la Parola diventa Parola quando io la faccio “accadere”. Il debar ebraico significa accadimento, noi parliamo di “verbum” latino o di “logos” greco che non traducono affatto il “debar” ebraico. Per noi la parola è un modo di comunicare, un “flatus vocis” un’espressione, un segno fonetico, mentre invece il “debar” ebraico è un accadere! Io parlo facendo accadere, cioè la mia parola è un atto compiuto, il mio atto compiuto è la parola detta, accaduta, quando non c’è questa assoluta coincidenza tra la parola e il gesto, Gesù dice c’è ipocrisia.

 Non a caso Gesù lancia questo monito al sistema religioso: voi siete ipocriti, dite e non fate. Gesù non dice mai (dobbiamo dirlo così con il nostro linguaggio): dite! La verità è un dire ciò che fa accadere, la verità è accadimento. Non a caso Luca nel suo vangelo dice: e accadde che…, i pastori nel vangelo di Luca dicono in greco (perché la traduzione banalizza sempre): andiamo a vedere questa parola che è accaduta. Vedere una parola che accade, è una parola che si vede perché accade, la parola che si vede a noi fa pensare al fumetto, mentre invece è una parola che si vede perché accade, è accaduta. Il bambino di Betlemme è l’accadimento totale della parola di Dio che poi sulla croce si rivelerà, in quel modo. Tutto questo dimenticando le Scritture, noi abbiamo dimenticato l’esistenzialità della nostra fede e abbiamo fatto della religione una ideologia, mentre invece la fede è una esistenzialità, è una persona, Gesù di Nazzaret.  Ed è una persona nella quale accade tutta la realtà divina: chi vede me, vede il Padre, non chi sente, chi vede. Infatti san Giovanni nella sua prima lettera dice: colui che i nostri occhi hanno contemplato, che le nostre mani hanno palpato, che i nostri orecchi hanno ascoltato, noi lo consegnamo a voi. È una consegna di uno che è visibile, ascoltabile e palpabile; ma in che modo è palpabile? È palpabile ormai nei fratelli e nelle sorelle. Quando due si incontrano io sono lì; questo spezzare il pane (compagno viene da cum pane), nel momento in cui si spezza il pane Luca 24,31 dice: scompare. Sì, adesso avete capito che io sono nella convivialità vostra. Con la Scolastica noi abbiamo ridotto la realtà sacramentale che è tutta la nostra vita, grazie al battesimo, a sette momenti, i sette sacramenti. Sette momenti.La nostra vita è grazie al battesimo, sacramento di Cristo nella storia, tutto ciò che noi facciamo dovrebbe essere sacramento, cioè visualizzazione dell’azione di Dio nella storia. San Gregorio Magno dice che essere comunità significa essere il luogo naturale della rivelazione dello Spirito Santo.

Pensate quale dignità ci è data da Dio, quando io sento i giovani dire: ma che senso ha la vita? Ma se noi fossimo veramente comunità cristiana noi metteremmo costantemente il senso della vita sotto la palpazione dei nostri giovani. È una fatica da scoprire continuamente, perché noi non siamo perfetti siamo sempre perfettibili, non saremmo mai perfetti. La Chiesa perfetta non esiste, solo nella testa di Bellarmino e di chi poi è venuto dopo di lui. La Chiesa non è mai perfetta, è sempre perfettibile, perché la Chiesa siamo noi. Noi pensiamo che la Chiesa sia il papa, i vescovi, i preti  e poi i laici, ma la Chiesa siamo noi! Su questo papa Francesco sta insistendo molto, io sono come voi, io non sono al di sopra di voi, io sono con voi e si è fatto benedire dal popolo di Roma quando è comparso alla loggia. Si è fatto benedire! È stato un segno straordinario, ma molto rivoluzionario per la struttura attuale; il fatto di aver detto che il conclave ha il compito di eleggere il vescovo di Roma, non ha detto il papa, il papa è papa in quanto è vescovo di Roma e non viceversa. Il papa è un servizio non è un ordine, il papa è papa in quanto è vescovo di Roma, ma niente di più. Raztingher è cardinale, non è più papa Benedetto, anche se continua a mascherarsi da papa, ma non lo è più, perché il papato è un servizio. I cinque papi che hanno dato le dimissioni prima di lui lungo la storia, sono tornati a fare quello che facevano prima, i vescovi di comunità, di città. Ecco Francesco dice che il compito del conclave è eleggere il vescovo di Roma. Noi dobbiamo renderci conto di quanto abbiamo bisogno di interrogarci e rivedere il modo con cui la Chiesa si pone di fronte alla parola di Dio. Non basta leggere la bibbia per dire sono a posto, perché se la leggo e non la vivo, non diventa Parola, diventa semplicemente segno grafico scritto. Più mi metto in rapporto con questa Parola più scopro Cristo e più soprattutto scopro di essere amato da Cristo. Questo è il problema, scoprire, capire e avvertire, badate non avvertire a livello emotivo sensoriale, ma a livello di consapevolezza. Gesù non parla di sentimenti, parla di esperienza, consapevolezza. La nostra fede non è sensazione, è consapevolezza: sapendo queste cose sarete beati, ripete nel capitolo 13  Giovanni. La consapevolezza di essere amato anche quando sono nel caos, nei guai, quando le mie ghiandole e i miei nervi non hanno nessuna possibilità di avvertire emozioni o sono emozioni completamente contrarie, ma io so - non sento - so di essere amato. È una consapevolezza profonda. È quello per cui in mezzo alle tempeste il fondo del mare è tranquillo; è una consapevolezza che mi dà la forza di andare avanti anche nelle tempeste più dure, più pesanti.


DOMANDA: Perché deve esistere un Cristo divino e umano e non solo un Cristo umano? Perché si è sposata, attraverso i millenni, questa teoria?

SALVATORE: Quando lo vedremo glielo chiederemo. San Giovanni nella sua lettera dice: noi sappiamo che saremo come Lui, lo sapremo quando ci saremo. Io ho una certezza del fatto che è risorto, perché l’hanno testimoniato con la vita gli apostoli. Io mi fido della testimonianza degli apostoli che hanno vissuto quello shock terribile che li ha sconvolti, li ha rivoltati come calzini. Dio sa che cosa hanno provato quei ragazzi quando hanno vissuto quell’esperienza, sconvolgimento totale e loro hanno dato anche la vita per trasmetterci questo. Io ho la convinzione che Cristo è l’uomo di Nazzaret, la cui esperienza di Dio è stata un’esperienza unica di figliolanza, cioè si sentiva fortemente legato al Dio d’Israele, al Padre. Padre è un termine che nel Primo Testamento (il termine padre nei confronti del Kadosh, il Santo) ritorna solo 5 volte sempre legato a Padre-Creatore e Signore. Nei vangeli ritorna oltre 270 volte, perché è il modo nuovo con cui Gesù ce lo  ha presentato, cioè Gesù ha cambiato il volto di Dio, indubbiamente, è diventato colui che non fa distinzione di persone, colui che fa piovere sul giusto e sull’ingiusto, che fa sorgere il sole sul buono e sul cattivo, che non giudica e non condanna nessuno. È un Dio totalmente altro dal Dio delle religioni, totalmente altro....

È vissuto in questa dimensione senz’altro, e di questo ne sono convinto e non solo io, sono convinto perché i vangeli sono scritti tutti dopo la resurrezione, quando i discepoli hanno incominciato a capire chi era. Perché mentre stavano con Lui, quante volte si chiedono: ma chi è costui? Ma chi è? Ma perché fa queste cose? Ma come mai dice queste cose? Avevano desiderio che prima o poi diventasse il discendente di Davide e non capivano perché si comportasse in quel modo. Lui è vissuto in una solitudine incredibile, indubbiamente, perché nessuno lo capiva e Lui era preso totalmente da un amore liberante del Padre. Questa è la sua enorme novità, il Padre come amore, come agape, come dono totale di sé agli altri. Non credo che abbia avuto la percezione di essere Figlio di Dio nel senso divino, perché Paolo dice: pur essendo di natura divina non la considerò una rapina da difendere, da custodire gelosamente, ma la svuotò, assumendo la forma di uomo, di schiavo, fino alla morte e dico alla morte di croce, cioè l’assurdità più totale. Io sono sempre più convinto che Gesù durante la vita non ha assolutamente avuto la percezione di essere Figlio di Dio nel senso divino, ma Figlio di Dio come uomo amato da Dio. Soltanto la resurrezione ha rivelato a Lui la sua appartenenza alla divinità .


DOMANDA: Perché esistono discrepanze tra i vangeli apocrifi e i vangeli che chiamiamo ufficiali?

SALVATORE: Dunque il problema degli apocrifi è molto complesso. A parte il vangelo di Tommaso che è una raccolta di detti,  i vangeli non hanno raccolto tutto e tutti i detti e teniamo presente che i vangeli non sono una biografia di Gesù, ma sono una catechesi, sono la riflessione di quattro diverse comunità sul mistero di Gesù di Nazzaret. Si pongono davanti a questo mistero e si interrogano e in base a quanto gli apostoli hanno insegnato dicono: in questa situazione cosa ci dice Gesù, vediamo che cosa gli apostoli ci hanno tramandato. Se noi mettiamo a confronto i quattro racconti della resurrezione sono quattro racconti completamente diversi e noi diciamo: qual è quello giusto? Tutti e quattro, perché sono i quattro modi con cui quattro comunità si pongono di fronte al mistero della resurrezione. L’insieme di tutti quei detti che erano stati raccolti oralmente e scritti dalle comunità dall’insegnamento degli apostoli che erano itineranti, è quello che noi abbiamo definito lungo la storia il codice Q, che non è un libro, non è un codice. Molti di questi detti non ci sono... il vangelo di Giovanni o comunque dello scrittore del quarto vangelo dice che molte sono le cose che dovremmo dire ma non basterebbero tutti i libri, c’erano moltissime cose! Tommaso raccoglie molti di questi detti tanto che Gerolamo lo pensava ispirato, gli altri evangeli sono tutti più tardi. Ai vangeli non interessa dirci come era fatto Gesù, di che colore erano gli occhi, come vestiva, sono cose che non interessano, agli evangelisti interessa il mistero della Pasqua, non  cosa faceva da bambino. A noi interessa che sia morto e risorto e allora gli apocrifi non ci dicono nulla. Luca ha il vangelo dell’infanzia, ma anche quella è una catechesi molto importante. Infatti passato nelle comunità primitive lo shock della resurrezione, esse incominciano a chiedersi: ma allora cosa faceva quand’era bambino? Era monello, non era monello? Nascono dei miti e i vangeli apocrifi sono dei miti che risentono molto delle mitologie greche. Il bambino che delle cose e poi le fa volare, mi sa molto di Ercole che da bambino soffocò i due serpenti. Sono dei miti e negli apocrifi c’è molto mito, mentre nei vangeli c’è catechesi. Nei concili successivi, quando è stato strutturato il canone, sono stati scelti questi quattro perché lì i padri conciliari hanno visto che la preoccupazione era quella dell’investigazione del mistero del Cristo morto e risorto, senza mitologia, liberato dalle mitologia.


DOMANDA: Mi conferma che sono interpretazioni.

SALVATORE: Sono interpretazioni del mistero di Cristo. È il domandarsi, anche se nei vangeli si riconoscono ipsissima verba, così sono chiamate le parole vere di Gesù, che si riconoscono facendo un’analisi letteraria. Gesù non ha scritto niente, da buon rabbino non scriveva niente, ma insegnava e perché ricordassero meglio ciò che diceva (era l’uso normale del sistema rabbinico), lo diceva in modo ritmico. Un ritmo si ricorda molto meglio mnemonicamente, per cui quando nel testo greco troviamo dei tratti che sono esattamente ritmici, diciamo che riportano decisamente il ricordo degli apostoli, la memoria con la quale gli apostoli ricordano ciò che Gesù ha detto. Il lavoro dell’esegesi biblica è molto complesso ed è fatto anche da queste cose, riuscire a distinguere il midrash dall’evento, il midrash o interpretazione del messaggio fatto attraverso l’immagine. Non conta l’immagine, ma il messaggio che l’immagine trasmette e invece il ricordo di avvenimenti che riguardano la persona dell’uomo Gesù.    

Nessun commento: