12 maggio 2014 Hildegarda von Bingen, la mistica visionaria dagli occhi verdi che parlava con Dio

di Ivana Baldassarri

Sono emozionata, spaventata, dubbiosa eppure totalmente sedotta da questa donna lontana e speciale di nome Hildegard, che tradotto significa “colei che vigila nella battaglia”: non so neppure se riuscirò a capire il suo tempo e il suo cuore e di conseguenza non so se sarò capace di raccontarli poi a voi come lei merita.

Mille anni ci dividono, insieme a tutti gli innumerevoli fatali cambiamenti che trasformano, rinnovano e rigenerano la vita dell’umanità: noi e lei siamo diversi in tutto, mille anni di pensieri e di parole in mutazione, rendono le nostre e le sue realtà così diverse da non poterle neppure più paragonare.

Poi, guardando le illustrazioni miniate dalle sue consorelle, corredo ineffabile della sua opera mistico-profetica, miniature policrome dove l’eleganza grafica diventa mistero, nucleo spirituale di un racconto sacro e teatrale insieme, mi viene in mente che quei disegni colorati, precisi, sintetici e fantasiosi potrebbero essere frutto di un’elaborazione al computer: immediatamente il tempo si annulla e ricomincio a pensare a Hildegard von Bingen come ad una stupefacente, ardimentosa, estrosissima, impegnativa contemporanea.

I mille anni si assestano alti nei cieli stellati, fra le galassie, fra i numeri incalcolabili, fra gli oblii fatali e quelli indotti, fra le distanze insormontabili e le insipienze, e mi avvicino a lei umanamente, con tenerezza, passione e curiosità come sorella pur speciale e straordinaria, come se il suo tempo richiudendosi circolarmente, a corona sul mio, acquistasse una possibile contemporaneità.

Hildegard Von Bingen monaca benedettina, mistica visionaria, scrittrice, poetessa, musicista, medico, teologa, studiosa enciclopedica, erborista, cosmologa, è un’autodidatta tedesca fantasiosa e vorace, ma è anche figura pubblica di primo piano nei conventi teutonici: polemizza con i potenti, scrive lettere, risponde vigorosamente ai nemici, aumentando di autorità e di celebrità giorno per giorno: avrà richieste di protezioni, di consigli, di esorcismi e la sua vita sarà rovente di passione, per la giustizia, per la Fede, per la libertà, ma soprattutto per la creatività individuale. Nata nel 1098 nei pressi di Alzey nell’Assia Renana della contea di Sponheim nella diocesi di Magonza da Hidelbert di Bermersheim, uomo della baronia teutonica, di nobile aspetto, silenzioso, bellissimo e triste e da Matilde che era molto più giovane del marito pur apparendo più anziana e meno vitale, forse per i dieci figli partoriti in poco tempo.

Nella sua biografia Hildegard parlando di loro dice: “Forse i miei genitori dopo aver concepito, partorito, cresciuto questi figli con fatica e affanni e avendo esaurito tutte le linfe e le forze fresche della loro giovinezza, troppo stanchi di generare allorché mi ebbero – ero la loro decima figlia – a mala pena si accorsero di me. Erano ormai nell’autunno della vita. Ecco, io ero dunque il segno che non potevano più decifrare!”

Hildegard ha subito la consapevolezza certa della sua stessa eccezionalità perché domina con intuito lucido e impavido la verità delle cose: a tre anni ha la sua prima visione mistica: “Fui invasa da uno spargimento di Luce così straordinario – scriverà – che la mia anima ne fu scossa e quasi rivoltata, ma a causa della mia età non riuscii a dire niente a nessuno”. La sua intelligenza si rivelò fin da subito straordinaria, assieme ad un corpo che, pur bellissimo, si rivelò vulnerabile, scosso da debolezze e da misteriosissimi dolori. La sua vita di bambina fu serena nelle severe consuetudini del castello nativo: tutta la sua gioiosa estroversione e tutte le curiosità di bambina speciale, sono seguite con amorevole partecipazione dalla sua balia, una contadina semplice e tenerissima che la avvolgerà di affetto e attenzioni fino all’ingresso di Hildegard – che ha otto anni – nel monastero benedettino di San Disibod. Quando suo padre le annunciò la decisione del suo allontanamento da casa, la bimba capì con chiarezza che stava perdendo la guancia dolce della balia, le sere vissute tutti insieme attorno al fuoco, il muso dei cani, i racconti buffi delle serve, i capelli di sua madre biondi e teneri come le piume degli uccelli al passo. Cadde svenuta. “Cicale martellanti mi affaticavano come se il mio capo fosse la loro voliera!”. Rimase ammalata per giorni, poi capì che era già tutto deciso e il suo cuore si arrese alla volontà di Dio, esercitandosi a poco a poco a scivolarvi dentro come quando uno si arrende al sonno.

La sua fu, da subito, un’intelligenza comunicativa: quando non riusciva a trovare le parole per chiarire i suoi pensieri e i suoi concetti, le inventava: una è “viridità”, che segnerà come un marchio intellettuale tutto il cammino filosofico, teologico, mistico e dottrinale espresso dalle sue opere.

 “Viridità” ha la stessa radice etimologica di vir, di virgo e di viridis e per Hildegard rappresenta l’energia universale che muove cielo e terra: è forza virile, è amore materno di Dio, ma è anche la primavera nel suo rinnovarsi e nel suo splendido rifiorire.

La sua vita fu subito segnata inequivocabilmente da un rapporto diretto e quasi carnale con la Fede in Dio, considerata da Hildegard come “vento potentissimo e maestoso che soffia al di sopra di tutti gli altri venti”.

Entrata nel 1106, a soli otto anni, nel convento benedettino di San Disibod - che comprendeva due comunità monastiche in “condominio”, quella maschile e quella femminile divise da una piccola chiesa in comune - per decisione familiare e per compiere gli studi di rito, Hildegard sceglie di prendere i voti a sedici in maniera del tutto autonoma, motivando con chiarezza i propositi fermissimi della sua decisione. Esce volentieri e senza lacrime dalla casa paterna e entra per sempre, felicissima, nel convento di Disibodenberg che considererà per tutta la vita “ il luogo più vicino al Paradiso”, che odora come il Paradiso di cose buone, di effluvi di cucina, di verdure cotte, di polpa di frutta, di gigli e di rose, di erbe medicamentose, di cera sgocciolante, di incenso e di tele di lino fresche e pulite!

Sarà affidata a Jutta Von Sponheim una giovane monaca di 22 anni, appartenente ad una delle più nobili e colte famiglie della Contea.

Impara velocemente e voracemente a leggere e a scrivere tanto che in convento la chiameranno “Colei a cui le parole non bastano mai”! Hildegard attraverso le parole scopre con entusiasmo e gioia i collegamenti fra le cose e le parole, fra i sentimenti e i pensieri, fra i misteri divini e le manifestazioni della Natura; collega con entusiasmo le parole al suono, il suono alla musica e al canto e a tutto quel misterioso universo di silenzi e di armonie, di echi e di rimandi che proprio il silenzio dominante sapeva rivelare e valorizzare appieno.  Tutto ciò che legge e che studia le sembra tonico ed emozionante, come se tutte quelle storie fossero correnti subacquee che affiorando con improvvisi rabbrividimenti, fossero capaci di scambi di umori vitali fra sé e il mondo in una splendida e virtuale immersione.

 Nella vita claustrale di Hildegard, quasi a confortare l’orfanezza che gli usi famigliari e sociali del tempo imponeva con assoluta indifferenza, sboccia una doppia circolarità di nuovo amore materno: Jutta diventa la mamma di Hildegard, come Hildegard sarà la mamma di Richardis e di Adelheidis e di tutte le suore che sceglieranno la comunità benedettina per vivere la loro verginità a Dio dedicata.

La carica d’amore materno che la verginità ha loro impedito di esprimere con la procreazione, si riconfigura sincera e vitale a dimostrazione che la donna sa essere madre anche al di fuori del parto. Hildegarda, oltre la balia della sua primissima infanzia, ebbe due madri, Jutta e Berthe. La prima, “bella, sguardo azzurro diamante, è morbida in ogni cosa, come una rosa senza spini, – racconta Hildegard – durante le ore di scuola anche i suoi gesti sono meravigliosi: apre ogni pagina come se sollevasse una tenda!”

E’ per Hildegard una splendida avventura la scoperta di tutte le cose che Jutta le propone sollevando graziosamente quella piccola tenda! Grammatica e retorica latina, un po’ di astronomia, la scienza dei numeri, la musica, tutto quel meraviglioso edificio nel quale Dio aveva posto la dimora degli uomini! Hildegard si interessa appassionatamente di tutto e questa stessa tendenza, violentemente sollecitata da un temperamento fiero e dirompente, instaura un circuito intricato e acceso di interdipendenze fisiche e spirituali.

Con Berthe invece Hildegard impara la quotidianità della vita pratica, rendendosi conto che la successione della stessa vita umana, animale e vegetale è un lusso sovrabbondante, “come uno strascico per un abito già meraviglioso”. Impara a valutare che esiste in Natura un discrimine fra cura e veleno e diventa bravissima a trarre preziosi consigli dalle corolle aperte, dalle gemme ancora chiuse, dagli stecchi e dalle foglie odorose, dai funghi, dall’ortica cotta che sana le vene, dalle prugnole bollite nel vino che riducono i crampi, dal liquore di salvia che cura l’alito cattivo, dalla zuppa di mentastro che fa digerire e dal fieno greco che, ben bollito, vince l’inappetenza.

La terra in ogni stagione diventa dottrina rivelata, gioia di sapienza, parola di speranza, diventa vera “viriditas”: Berthe di notte esce col suo falcetto d’argento e raccoglie agrimonia, corteccia d’acero e salice, felce dolce e tutti i rimedi per la febbre: impasta farina, mirra e olio di papavero per lenire proprio quei misteriosi e improvvisi attacchi di paralisi che lasciano Hildegard senza sensi per ore e a volte per giorni, “inerte come una lisca” e che noi oggi chiameremmo forse “turbe psicosomatiche”.

Jutta e Berthe hanno la consapevolezza certa della eccezionale sensibilità di quella creatura che il destino ha loro affidato e seguono nel silenzio e nella preghiera anche il prodigio delle sue visioni straordinarie, confidate solo al padre spirituale, favorendo con discrezione e generosità la tensione di Hildegarda ad adattarsi all’obbedienza e al silenzio, aiutata e sorretta soprattutto dalla possibilità di studiare, di cantare, di scrivere e di correre nei freddi campi e nelle fitte foreste di Disibod, scegliendo crisopazi, berillio, dittamo, rose e nasturzi.

La traduzione e l’interpretazione dei testi sacri rinforzano la fede e la dottrina di Hildegard e le permettono un linguaggio scritto e parlato colto e pieno, favorendo la libera espressione alla sua profetica visionarietà.

Spirito fervente e immaginoso, aveva la capacità, anche nell’estasi, di raccontarla con elegante proprietà di linguaggio, che offre un esempio di scrittura modernissima per la sintassi rapida e l’alternarsi di frasi acute e sintetiche, di periodi corti, resi più incisivi da chiusure improvvise.  

Di fronte alle sue considerazioni vertiginose e concentriche – come certi sontuosi disegni espressi dalle anonime suorine del suo staff – rimaniamo perplessi, stupiti e sedotti che le donne anche nel lontanissimo Medio Evo, sapessero offrire, più degli uomini, non tanto le spiegazioni e le rivelazioni dell’immaginario mistico e surreale, ma riuscissero a concedere un ulteriore tocco immaginifico alla rivelazione stessa.

Fra gli anni 1112 e 1115, quando la vecchia badessa muore, Jutta diventa il nuovo capo di Disibodemberg. Sono per Hildegard anni intensissimi di formazione culturale e ricchi di pratiche sanitarie-curative attraverso le erbe, fino alla entusiasmante consapevolezza che ogni singola disciplina ha il compito di condurre, nell’unità e nelle completezza del sapere, a Dio e alla sua celeste enciclopedia.

“In quei giorni – scriverà Hildegard – rinascevo a me stessa senza dolore”, più drammatiche e combattute sono invece le sue Visioni:

“Come urlo nella notte, la Luce chiedeva subito silenzio attorno e si faceva carne! Veniva nella mia voce col suo tremendo dono di parole!”

Spaventata e sedotta Hildegard restava, nel corso di queste visioni, sveglia, cosciente, pronta a ricordare: quella Luce, molto più luminosa di una nuvola che avvolge il sole, penetrava con segrete mani ogni linfa del suo essere. Hildegard volava, percorreva cieli e vallate, saliva sempre più in alto fin dove non esiste più né spazio, né forma, né tempo, ma solo la finissima polvere d’oro di remote costellazioni.

La lucidità della consapevolezza diventa tormento nell’incapacità fisica e psichica di dominare a pieno l’evento.

“Signore prendimi – grida Hildegard – abbi pietà della mia pochezza!”

Il rapporto della monaca di Disibod con Dio è un vero, esaltante, visionario, sincerissimo rapporto d’amore! E’ come se Hildegard offrisse a Dio la propria verginità, la propria vita e tutte le sue forze fisiche e mentali, chiedendogli in cambio un protagonismo intellettuale che la facesse diventare una creatura assolutamente degna di Lui!

Uno sfrontato avvicinamento, una conquista, certo un delirante e forse presuntuoso possesso!

Il rapporto d’amore di Hildegard con il suo Dio non è mai né sereno, né consolatorio: è sempre affrontato con tono della reciproca ed ineluttabile conquista.

“Le invasioni di un totale spargimento di Luce”, come lei chiamava le visioni, assumono, proprio perché tenute segrete, i toni di una rovente angoscia, come se quello che le stava accadendo fosse veramente troppo per lei.

“ Ero spaventata – ricorda Hildegard – delle stesse parole che avevo in me!”

Fra crisi, febbri, silenzi prolungati, studi letterari e musicali, preghiere ed sperimentazioni erbarie in un laboratorio annesso al convento, si fa largo nel cuore di Hildegard la sensazione che la sua vita sia una lunga vigilia d’amore, e che il tormento “di passare attraverso le tenebre del tempo”, avrebbe dovuto cedere il posto alla gioiosa attesa.

 “La conquista della mia serenità non doveva essere come la corsa di un bimbo che insegue farfalle, ma come lo squarcio d’azzurro e l’arcobaleno che seguono la tempesta, dopo che il mondo si era rovesciato su di me!”

Intanto Jutta , come le visioni di Hildegard avevano già annunciato, si ammala gravemente: un cancro, frutto tossico di umori malefici senza rimedio, se la porta via in pochissimo tempo.

“Piansi a lungo – scrive Hildegard – come non avevo fatto per la mia madre naturale!”

A 38 anni, Hildegard, senza avere più tempo né per sbigottirsi, né per accampare timori, diventa Badessa di San Disibod.

“Era l’equinozio di primavera, la costellazione dell’Ariete batteva la testa maschia contro gli alberi risvegliando la potenza delle foglie” quando Hildegarda, sotto l’auspicio di quelle stelle, si presenta pronta di cuore, alle sue sorelle nella consapevolezza delle difficoltà esistenti per la convivenza monastica con Kuno, l’abate misogino, aristocratico, altezzoso e sordo di cuore di San Disibod, che non considerava paritarie le necessità dei monaci maschi a quelle delle monache femmine.

 Hildegarda, che come dice il suo nome, è “colei che vigila nella battaglia”, comincia a chiedere insistentemente velli di carta di pecora, calami e inchiostri, strumenti per musica, stili e pennelli, libri e stoffe affinché la vita delle sue monache, fosse dignitosa, colta e felice.

Un vero scandalo! Irrisione e muta contrarietà da parte di Kuno, fino a che qualche imperioso avvertimento delle famiglie nobili delle monache, convincerà l’abate Kuno a demordere e soddisfare le richieste di Hildegard.

E’ di questi tempi, siamo circa intorno al 1136, l’arrivo provvidenziale e non previsto del colto e mistico Monaco Volmar e della novizia Richardis appartenente alla potente e nobile famiglia dei Von Stad.

“Ci sentimmo subito come la figura di un triangolo - scrive ancora Hildegard - una combinazione perfetta che per sua natura concentra ogni forza: è base e altezza!”

Insieme leggono e commentano le sacre scritture, scrivono versi, fanno musica dato che Volmar suona l’arpa, la ribeca e il liuto, Richardis canta con la sua voce limpidissima capace di salire e scendere modulando: spesso Volmar, durante le lunghe sere invernali, medita o intaglia il legno col suo coltello, Richardis ricama oppure minia immagini e Hildegard erborizza con cura piante colte di recente.

“Comunicammo lieti e silenti, ognuno assorto nella propria meraviglia” ricorda la Badessa felice. Sono anni vissuti come in mistica surplace, fino a che nel 1138, nel corso di una visione più imperiosa e travolgente delle altre, la Luce ordina ad Hildegard di mettere per iscritto tutto quanto le viene rivelato.

La badessa si confida con Volmar - che subito si era dimostrato amico colmo di comprensione, di rispetto e spirituale amicizia - che l’incoraggia a rendere note le sue esperienze mistico-profetiche.  Comincia così anche per il convento un lungo periodo di fervido lavoro: sarà la redazione, la stesura e l’illustrazione di un’opera monumentale, la prima di una lunga serie di opere hildegardiane.

Richardis traccia i primi disegni che rivelano quanto Hildegard dice durante le visioni alle quali ora assistono anche Richardis e Volmar: sarà proprio Volmar a diciamo “stenografare” le parole dette da Hildegard. Un gruppo di suore disegnatrici poi completa e amplia e colora i primi schizzi di Richardis: un team di vergini medioevali intente ad un lavoro collettivo di moderna concezione comunicativa, l’edizione di un prodotto visionario originalissimo, al di sopra e al di fuori di ogni loro consuetudine.

Nasce così “Scivias – Conosci le vie”: Hildegard lo vuol sottoporre anche al giudizio di Bernardo di Chiaravalle, mistico francescano e dottore della Chiesa, che la esorta a continuare a documentare le visioni, confidando nell’alto disegno profetico che le riconosce. Sono questi gli anni durante i quali Hildegard, quasi per aggiungere completezza alla sua opera, inizia una ricca produzione musicale. Esiste una lettera di Oddone di Sassonia che esprime profonda ammirazione per le musiche originali di lei.

La celebrità della “Sibilla del Reno” come la gente comincia a chiamarla, si spande velocemente in Germania, in Europa fino a Roma, alla sede papale di Eugenio III, che in occasione del Sinodo di Treviri leggerà in pubblico alcuni passi proprio dello “Scivias” di Hildegard.

Poi la voce delle visioni ordina ad Hildegard di fondare un altro monastero e di gestirlo in maniera personale e autonoma. Dopo un difficile periodo caratterizzato dall’ostracismo dell’Abate Kuno e da conseguenti crisi della salute di Hildegard, avviene il distacco di 18 suore con Hildegard, Volmer e Richardis, 2 monaci carpentieri e 2 operai da San Disibod: il luogo prescelto è la roccia di San Rupert, dove il fiume Nahe confluisce nel Reno.

Difficoltà logistiche, restrizioni e vera iniziale indigenza coinvolgono la nuova comunità, ma la prova più dolorosa sarà l’opposizione dura, furente, stizzosa di Kuno, suo diretto superiore, al nuovo progetto.

“Taci, - le disse Kuno durante i preparativi – e torna a stare chiusa nel tuo vecchio convento!” Gelosia, invidia e tutta la dominante mascolinità ferita, non scoraggiarono però la Badessa del nuovo convento di San Rupert!|

Conosco un solo ritratto di Hildegard: contro lo sfondo di un apparato liturgico, forse un altare, forse un tabernacolo, si staglia la parte alta della figura di lei. Un viso bellissimo, lo sguardo assorto, lontanante, di grandi occhi verde liquido, ovale perfetto, labbra ben disegnate, naso proporzionato e aristocratico, incorniciato dalla fitta trama di veli candidi e vaporosi sui quali il velo nero benedettino riporta l’idea claustrale, anche se stravolto da uno splendido gioiello, quasi una corona, appuntato sulla parte alta del velo nero che scende avvolgendo le spalle forse esili.

Non si può che essere sedotti, nonostante la diversità dei gusti e delle mode, dallo sguardo misterioso, silente e affascinante di questa strana benedettina più assomigliante ad una regina che ad una monaca: fermiamoci un attimo a pensarla mentre si prepara per presentarsi così, con la cura e la tensione di rappresentare al meglio il suo importante personaggio.

Prima avvolge i veli bianchi sulla testa ricca di capelli biondi – lei e le sue monache erano dispensate, per suo volere dal taglio dei capelli - ; passano e ripassano le piccole dita di Hildegard sui veli morbidi e increspati per dar loro la foggia desiderata e per accentuare quelle due pieghe aperte sulle tempie che sembrano offrire un allungamento al suo stesso sguardo: poi Hildegarda indossa il velo nero, segno irrinunciabile del riconoscimento benedettino, assieme al gioiello posto nella parte più alta e visibile del velo: è proprio quel gioiello che deve comunicare il suo prestigio, la sua nativa aristocrazia e tutta quella tensione per meritare e da Dio e dagli uomini amore, rispetto e considerazione, gli stessi sentimenti che lei con passione e generosità ha sempre donato a tutti.

Con viridità!

Fece scandalo nella chiesa teutonica medioevale, l’abitudine di Hildegard e di tutte le sue monache ad ornarsi con manti colorati e gioielli e fiori nel corso delle grandi feste religiose o delle visite al convento di autorità imperiali ed ecclesiastiche, ma tutta la sua esistenza, Hildegard ebbe un talento guida assoluto, la felicità.

Per questo odiava il nero, i cilici, le macerazioni, considerandoli miopi e inutili vanità dell’orgoglio: preferì che le tuniche fossero bianche o verdi smeraldo, non recise mai i capelli alle sue monache, volle che si adornassero di perle e di rose per proclamare la gratitudine a Dio per la loro giovinezza, volle che fossero creature consapevoli e istruite, perché diceva, la scuola della felicità, insegna cento volte meglio di quella del dolore!

Per la sua accresciuta celebrità, i pellegrini affluiscono sempre più numerosi a San Rupert: sono malati, curiosi, nobili, plebei, infelici, atei, cristiani, guerrieri e indemoniati che cercano pace e salvezza: Hildegard accoglie tutti con amore e instancabile disponibilità: intanto intrattiene rapporti epistolari con i grandi del suo tempo, col il Papa, con l’imperatore e i Vescovi: spesso non misura le parole quando si tratta di stigmatizzare condotte e comportamenti non degni del loro alto ruolo.

Cosa del tutto insolita per quel tempo, intraprende quattro viaggi di predicazione che la porteranno in Franconia, in Lorena, in Svevia e lungo il Reno fino a Werden.

Cerca di interporsi, in occasione degli scismi verificatisi nel 1160 e nel 1177 ad opera di Federico Barbarossa, fra Roma e l’imperatore che aveva nominato ben 4 antipapi. Con Federico, l’Imperatore dai capelli e dalla barba rossi come una vendemmia e dagli occhi color acqua marina che non mentivano mai e che mira alla restaurazione del Sacr4o Romano Impero, Hildegard, che ha 26 anni più di lui, avrà un rapporto di conoscenza e di frequentazione intenso e combattivo, fra considerazione e rispetto, fra riverenza e disapprovazione, documentata da un ricco e interessante carteggio.  

Hildegard fu scrittrice e compositrice feconda, ma tre sono le opere che compongono il suo trittico profetico visionario: “Scivias o Conosci le vie”, scritto fra il 1141 il 1158, “Liber vitae meritorum – Libro dei meriti della vita” composto fra il 1158 e il 1163 e il “Liber divinorum operum – Libro delle opere divine” la cui stesura iniziata nel 1163 è stata completata nel 1173. Queste tre opere abbracciano tutta la storia sacra dalla creazione fino alla fine del mondo: ciò che distingue Hildegard dai teologi della sua epoca è il dinamismo ed il carattere concreto delle sue visioni che sono di un’incredibile ricchezza. Esse ispirando tutte le miniature presenti nelle opere stesse, hanno offerto anche un tipo nuovo di immagini documentarie nell’iconografia medioevale: una specie di “Gerusalemme celeste” che ingloba tutta l’umanità chiamata al raggiungimento di una innocenza originaria celebrata nel canto corale degli uomini, degli angeli e dei santi.

Hildegard alterna ai suoi impegni teologici, dottrinali, sociali e umanitari che la pongono nei più alti gradini della storia ecclesiastica medioevale, con due passioni profondissime di stampo artistico creativo: la composizione della musica e lo studio delle erbe.

Abbinate, forse dipendenti l’una dall’altra nell’ispirazione, sono, nella considerazione della Badessa, libere e dall’ortodossia dogmatica e dalla tradizione della Sacre scritture: musica e erboristeria sono il doppio binario sul quale scorre la sua personale creatività, coinvolgendo quell’idea di totale donazione di sé nei confronti di un’umanità dolente e povera.

Un sua opera musicale intitolata “Sinfonia dell’armonia delle rivelazioni celesti”, considerata dalla stessa Hildegard come tappa di avvicinamento alla condizione paradisiaca, fu composta su un piccolo salterio a 10 corde di legno di ebano, che la Badessa aveva sempre nelle tasche del suo abito; è una raccolta di 77 composizioni liturgiche ripartite fra antifone, inni, responsori e sequenze molte delle quali dedicate alla Vergine Madre di Dio.

“La vergine – scrive Hildegard – è la donna che resta fedele a se stessa e si lascia attraversare dall’altro da sé, preservando la sua anima, chiusa nel corpo come nel talamo regale”

 Femminista ante litteram, la monaca benedettina dice che le sue figlie indossando la veste bianca dell’ordine, si donano a Dio perché sono le immagini della celeste viriditas e portano perle e oro gemmato per inghirlandare le parti del corpo attraverso le quali si manifesta la loro virtù: le orecchie con le quali ascoltano, il cuore che ama e accoglie, le dita e le mani che curano e pregano.

Anche nella esaltata e varia produzione musicale hildegardiana, che lei stessa diceva vorticasse leggera nell’aria della sua stessa voce, come una raffinata calligrafia sonora, esiste la fulgida indissolubilità del legame testo poetico – musica che interagisce nella valorizzazione del messaggio divino.

Hildegard considerava la capacità di fare musica come un attributo divino e individuava proprio nella musica e nel canto lo strumento privilegiato per conoscere e per percorrere le vie che conducono a Dio. Per Hildegard la musica aumenta la santità della parola, risveglia vibrazioni simpatetiche, riattiva l’unione dell’individuo con il Cosmo. Pur collocabile nell’ambito della tradizione alto-medioevale, lo stile musicale di Hildegard rivela una notevole originalità caratterizzata da improvvisi melismi, da disegni melodici di notevole estensione, flessuosi, eppure ritmicamente irregolari e discontinui, in cui una certa ripetitività tematica crea il senso di un ininterrotto flusso musicale, quasi a spirale, che girando su se stessa crea un effetto altamente ipnotico, una spinta verso l’alto, una progressiva ascensione e smaterializzazione della materia sonora.

Vorrei accennarvi anche qualche parola su “Ordo Virtutum” che è il primo dramma musicale medioevale destinato alla scena, rappresentato e composto da Hildegard per un cast esclusivamente femminile: racconta le tappe del faticoso cammino di Anima, la protagonista, verso la beatitudine. Anima ce la farà perché Virtù, altro personaggio, le mette a disposizione tutti i medicamenti e i soccorsi di una Natura provvida e generosa.

Tornano così le erbe, i fiori, le sementi, il nardo prezioso, la felce dolce, l’incenso, la ruta, il finocchio e la citronella ad aiutare l’uomo nel difficile cammino della vita: torna la viriditas dei campi e degli alberi, il miele e il vino, le tisane di achillea e di tanaceto, il fumo esalato dalla cannuccia di aloe e di mirra, tornano le conchiglie di fiume, per curare i corpi degli uomini da quelle malattie alle quali Hildegard si rivolgeva con gentilezza, come se fossero anch’esse entità da conquistare e da vincere.

Arrivò a Rupert un’indemoniata di Colonia di nome Sigewise.

“L’orgoglio dell’antico serpente la teneva avvinta” scrive la Badessa nel drammatico racconto del lungo e difficile esorcismo, “ e siccome il diavolo odia l’acqua, le porte aperte dove entra il vento e il sole, odia la musica intonata, tenuta alta dal respiro, odia le monache che cantano e pregano felici, odia il suono dell’organo, le medicine buone e le focacce condivise, gli abbracci delle sorelle e le laudi del mattino, allora io, piccola e infelice Sigewise, ti curerò con tutto questo!”

E il demonio si allontanò per sempre dalla piccola ragazza di Colonia!        

Nel 1165 Hildegard fonda ad Elibingen, non lontano da Rupert, un terzo convento destinato a fanciulle non aristocratiche: in questo nuovo convento si dovrà trasferire tutta la comunità di Rupertsberg per la distruzione del Convento avvenuta durante la guerra dei 30 anni e sarà proprio il nome di questa località ad essere abbinato a quello della badessa che passerà alla storia col nome di Hildegard Von Bingen.

Ma l’esperienza più amara Hildegard la vivrà un anno prima della sua morte e sarà l’ultima disobbedienza ai teutonici ordini dei suoi stessi superiori. Molti nobili che sostenevano economicamente il suo convento, chiedevano di essere sepolti in quel sacro recinto, protetti dalle preghiere e dai canti delle suore. Uno di questi aristocratici, di cui non ci è pervenuto il nome, arriva morente nel convento di Hildegard ricevendo sacramenti e sepoltura. Ma essendo stato in precedenza uno scomunicato, non avrebbe potuto godere, per le leggi ecclesiastiche, di questo privilegio. Il vescovo di Magonza impone di disseppellire dal recinto conventuale l’infelice cavaliere. Al rifiuto netto della Badessa che non vuole assolutamente violare la sepoltura, obbedendo così alla volontà della “Luce vivente” delle sue visioni, il convento cade sotto l’interdetto ecclesiastico con il divieto di celebrare i sacramenti e di cantare gli inni liturgici. Esiste una lettera sapientissima e appassionata in cui Hildegard difende coraggiosamente il suo misericordioso operato, rivendicando anche il senso alto e religioso della musica, affermando che proprio la musica, a cui si dedicavano quotidianamente le sue monache, esprime quel carattere simbolico che permette di riunire corpo e anima realizzando appieno così l’armonia cosmica originaria.

L’interdizione verrà revocata, riconoscendo a lei un comportamento giusto, pietoso e disinteressato. In quella occasione Hildegard predice il giorno della sua morte, sarà il 17 Settembre 1179, Hildegard Von Bingen ha 81 anni.

Segni miracolosi accompagnarono la sua morte: nel cielo apparve un doppio arcobaleno persistente e luminosissimo che si intersecò nei 4 punti cardinali ad una gran croce attorno alla quale volavano mille e mille colombe bianchissime: nei prati attorno al convento fiorirono nasturzi improvvisamente, mirti, ortica, achillea e rose gloriose e tutta l’erba espresse il massimo della sua viridità.

Dal convento intanto le monache innalzarono canti purissimi, gli stessi composti, come essenza di beatitudine, da Hildegard Von Bingen, la badessa visionaria e profetica dagli occhi verdi che parlava con Dio, che guariva le malattie del corpo e dell’anima, che scrisse di teologia di musica e di erboristeria, che parlò a papi e imperatori, una donna medioevale che rivendicò la dignità, l’intelligenza e la cultura femminile, una monaca che nonostante fosse stata beatificata nel 1324, per mille anni fu proditoriamente e volontariamente dimenticata nel gran crogiuolo della Storia dominata dagli uomini.
Ma il 10 Maggio 2012, Papa Benedetto XVI l’ha proclamata “Santa” e il 7 Ottobre dello stesso anno (2012) l’ha proclamata “Dottore della Chiesa”.

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