Influssi ed echi letterari nella musica romantica.


Lontana da me l’intenzione di volermi spacciare per cattedratico, incomincerò, tuttavia, l’odierna conversazione sul tema “Influssi ed echi letterari nella musica romantica”, col richiamare alla vostra attenzione alcuni concetti che è bene tenere presenti quando si parla di quel complesso movimento spirituale e culturale, causa di profondi mutamenti nelle lettere, nelle arti, nel pensiero, nella politica e nel costume europeo dell’epoca a cavallo fra Settecento e Ottocento, che va sotto il nome di Romanticismo.
Sorto sul finire del Settecento in Inghilterra e, con più matura consapevolezza, in Germania, dove si legò alla filosofia dell’Idealismo, il Romanticismo si estese progressivamente in tutta Europa.
Il nome del movimento deriva dall’aggettivo romantic, che appare per la prima volta in Inghilterra sul finire del Seicento, e in connessione con la parola romance, che originariamente equivaleva a francese antico e, in seguito, a narrazione poetica in versi, assumerà via via il significato di «cosa fantastica, irreale, simile a quelle che avvengono nei romanzi» e, quindi, servì a definire sia una disposizione d’animo fantasioso e sentimentale, sia i paesaggi solitari e pittoreschi che la stimolavano.
Il Romanticismo fu preparato da quel mutamento progressivo della sensibilità e del gusto, verificatosi nell’ambito stesso dell’Illuminismo e del Sensismo, che prese il nome di Preromanticismo.
A questa corrente appartengono, con minore o maggiore evidenza, il francese Jean-Jacques Rousseau, il movimento germanico dello Sturm und Drang (tempesta e impeto - espressione di un individualismo esasperato e fremente), lo scozzese James Macpherson e il nostro Vittorio Alfieri.
 Contemporaneo e lettore di due fra i piú importanti rappresentanti dello Sturm und Drang, Friedrich Schiller e Wolfgang Goethe, fu Ludwig van Beethoven[1], un musicista che incarna la nuova figura del compositore moderno 

Con lui l'espressione dell'interiorità dell'artista e delle sue dolorose vicende esistenziali viene in primo piano.
Inoltre, con il suo lavoro, la nuova coscienza storica e morale che aderisce ai grandi ideali di libertà e giustizia emersi dalla Rivoluzione francese, investe la creazione musicale.
L’inno alla gioia di Schiller nella Nona sinfonia in re minore op. 125, la Terza sinfonia in mi bemolle maggiore op. 55 Eroica, l’opera Fidelio, l’ouverture Coriolano e le musiche di scena per il dramma storico Egmont di Goethe, sono alcuni esempi di questa sua coscienza storica e morale.
 Oggi vi parlerò di Egmont che Beethoven fu indotto a comporre, oltre che dalla sua sconfinata ammirazione per Goethe, dal soggetto del dramma che esalta l’eroismo per la libertà e il sacrificio per l’amor di patria e (siamo all’epoca della riforma protestante) per la libertà di religione.
In particolare si narra la vicenda della decapitazione di Lamoraal Egmont principe di Gheldria, avvenuta a Bruxelles il 5 giugno 1568, per ordine del plenipotenziario dell’imperatore Filippo II, il duca di Alba, soprannominato dai protestanti olandesi Duca di Ferro, e addirittura macellaio delle Fiandre, a causa della brutalità esercitata durante le operazioni militari condotte dagli occupanti spagnoli contro i protestanti fiamminghi.
Le gesta di Egmont divennero parte del folclore olandese e inglese, andando ad alimentare, sul suo conto, una sorta di leggenda.
Leggenda che Beethoven doveva conoscere per averla appresa dal nonno paterno, dal quale aveva preso il nome, Ludwig discendente da una famiglia fiamminga di contadini ed umili lavoratori, originaria del Brabante.
La particella «van» non ha dunque origini nobiliari ed il cognome «Beethoven» deriva con ogni probabilità dalla regione olandese della Batavia (Betuwe) situata nella Provincia di Gheldria.
L’Egmont eseguito per la prima volta il 15 giugno 1810, è un tipico esempio del sistema dualista di Beethoven, cioè due temi fondamentali in contrasto: quello dell’amore per la vita, per la patria e per la famiglia e quello del senso eroico che porta a superare ogni egoismo e non fa temere la morte.
Si dovrebbe ascoltare ora, nella interpretazione dei Berliner Philharmoniker diretti dal maestro Claudio Abbado, l’Ouverture in fa minore da Egmont op. 84 a partire dal momento in cui, dopo i temi iniziali, erompe un nuovo tema improvviso, veloce, agitato e carico di tensione, che sembra richiamare la fatidica atmosfera del primo movimento della Quinta Sinfonia in do minore op. 77 la cosiddetta Sinfonia del destino.
Si stabilisce quindi una sorta di contrapposizione fra i suoni pastorali e quelli guerreschi del trionfo in battaglia, che costituiscono il rivoluzionario omaggio di Beethoven al trionfo del bene.


Ed ora passiamo a Franz Schubert [2]un compositore che Robert Schumann ha definito «un primogenito di Beethoven», ipotesi non impossibile se si considera che fra i due correvano ventisette anni di differenza: Beethoven è nato nel 1770 e Schubert nel 1797.
Ma gli storici della musica ci assicurano che il rapporto fra i due è stato unilaterale, nel senso che Schubert ebbe notizie di Beethoven e non viceversa.
All’incirca dall’anno 1816 e fino al 1827, l’anno in cui muore Beethoven, e al 1828 in cui scompare Schubert, i due maestri sono anche due contemporanei, entrambi attivi, per di piú a pochi metri di distanza nella stessa città di Vienna.   
Dai classici, Mozart e Beethoven, Schubert prese la volontà costruttiva tesa a elaborare nei minimi particolari l'idea creativa dell'opera.
Romantica è invece la sostanza originaria delle sue idee musicali che sembrano provenire quasi tutte dal mondo cangiante e sconfinato dei suoni della natura.
Si direbbe che i suoi pensieri scaturiscano dalla fonte primitiva del suono e della melodia, ma in realtà sono il frutto della sua inesauribile ricchezza di sentimento e di fantasia, di tono e colore, della sua sublime arte nel realizzare magiche modulazioni che ci rivelano profondità dell'anima mai prima esplorate.
Oltre la Sinfonia n. 8, in si minore, D. 759 - comunemente nota come Incompiuta - canto di dolore dalle profondità imperscrutabili, appartengono alla produzione di questo grande compositore altre otto sinfonie e una copiosa produzione di musica strumentale e sacra.
La gloria peculiare di Franz Schubert è tuttavia il Lied, cioè quel particolare genere poetico musicale di origine popolare che, a partire dalla fine del Settecento, ha stretto un vincolo indissolubile con la musica romantica tedesca.
I Lieder di Schubert sono infinitamente vari: lunghi, brevi, lirici e drammatici, semplici e complessi, strofici e durkcomponiert: parola praticamente intraducibile: letteralmente “comporre sopra", cioè con la melodia che segue la poesia dal principio alla fine, in un'unica continuità drammatica o lirica.
L'essenza del Lied di Schubert è la stessa della poesia lirica: rendere al massimo l'espressione del sentimento in un breve spazio di tempo.
Sui quasi settecento Lieder composti da Schubert, circa settanta sono su testo di Johann Wolfgang von Goethe (Francoforte sul Meno 1749 – Weimar 1832).
Non poteva, infatti, un compositore “classico romantico” come Schubert ignorare la presenza di Goethe, figura predominante di tutta la letteratura tedesca, addirittura un simbolo di una civiltà letteraria, a cavallo fra Settecento e Ottocento, che avrebbe finito col dare una parabola emblematica del Romanticismo - specie germanico, al quale Goethe volle tuttavia dichiararsi estraneo - con la sua opera maestra, il Faust, la cui stesura lo impegnò per circa 58 anni, dal 1773 al 1831.
E le liriche di Goethe, con la loro profondità, originalità e sensualità, furono predilette da Schubert, a cominciare da Gretchen am Spinnrade (Margherita all’arcolaio), composta il 19 ottobre 1814, quando il compositore aveva poco più di diciassette anni.
Qui il giovane Schubert dà l’esemplare rappresentazione musicale di un'azione che è nello stesso tempo lo specchio rivelatore di processi intimi dell'anima.
Margherita, la protagonista femminile del cosiddetto Urfaust (in pratica, la prima parte del Faust), è una donna sconvolta dal peccato e, a momenti, dal ricordo della felicità goduta cedendo alla corte di Faust.
Nel girare dell'arcolaio, cui gli impulsi ritmici della parte pianistica imprimono slancio nel suo moto perpetuo e ronzante, la reminiscenza del fatale incontro con Faust prende corpo, si sofferma, dopo il crescere dell'ansia, sul suo bacio (“sein Kuss”) e poi ricade nel desolato sospiro dell'inizio“Meine Ruh ist hin” (La mia pace è perduta).
Il diciassettenne Schubert coglie il tratto tremendo dell'abbraccio goethiano, la natura animale del maschio che carpisce la verginità e nell'atto stesso annienta la preda.
L'unione fra poesia e musica si compie nella descrizione di questo sacrificio che dovremmo ascoltare dalla voce del mezzosoprano Angelika Kircschlager accompagnata dal pianista Melvyn Tan:

Questa che abbiamo appena ascoltato è l'opera che ha dischiuso a Schubert la strada maestra della composizione liederistica.
Da qui in avanti egli dispiegò la sua miracolosa inventiva e, come scrisse il drammaturgo austriaco Franz Grillparzer: «Ordinò alla Poesia di cantare e alla musica di parlare».
Lasciamo ora la Germania e trasferiamoci in Scozia per fare la conoscenza di un autore di canti popolari scozzesi, il romanziere Sir Walter Scott[3] che, nel 1802, dava alle stampe le sue Poesie del confine scozzese, anche se sarebbe poi diventato, piú giustamente, famoso come iniziatore del genere del romanzo storico in cui, secondo il gusto romantico, rievoca il mondo antico in racconti avvincenti nella trama e pieni di elementi pittoreschi e patetici.
I romanzi di Walter Scott ebbero vasta diffusione in Italia (influenzarono anche il Manzoni); ma pochi, forse, sanno che essi devono gran parte della loro iniziale popolarità ad un'opera di Gioachino Rossini[4]


La donna del lago (rappresentata a Napoli nel 1819) il cui libretto deriva, appunto, dall'omonimo poema narrativo di Walter Scott, pubblicato nove anni prima e giunto occasionalmente a Napoli in una traduzione francese.
Fatto sta che Rossini si innamorò del soggetto al punto da far suo quel clima di leggenda nordica e di poesia ossianica[5], dove l'amore del re Giacomo V (sotto le vesti di Uberto), di Malcom e Rodrigo per Elena (la donna del lago), come puro incanto dell'anima, ravvivato da vibrazioni di passioni romantiche e da conflitti con il dovere di patria, si sposa al sentimento epico (la lotta dei ribelli scozzesi del clan di Douglas, il padre di Elena, contro il re Giacomo V) nel nuovo fascino di baluginanti atmosfere preromantiche che conquistarono l'ammirazione di Giacomo Leopardi, il quale nel 1823 scriveva da Roma:
«Abbiamo in Argentina (il teatro) La donna del lago, la qual musica è una cosa stupenda, e potrei piangere ancor io, se il dono delle lacrime non mi fosse stato sospeso».
Da La donna del lago che dovremmo ascoltare ora la gentile, affettuosa, cullante barcarola di Elena "Oh mattutini albori" in cui, come scrive Riccardo Bacchelli, sorge «coll'estasi della luce sull'acque e fra i monti, l'affanno delicato di un amore contrastato, che sogna e si lamenta nel suo segreto».
Canta il soprano June Anderson con l’orchestra della Scala diretta da Riccardo Muti.

Il linguaggio della felicità, che ad un primo ascolto sembra voler parlarci la musica di Rossini, non consente che la vicenda de La donna del lago finisca, come logica vorrebbe, in modo drammatico.
La soluzione del lieto fine, propiziata dal tradizionale intervento del “deus ex machina”, sembra cogliere di sorpresa, piú che lo smaliziato spettatore, la protagonista, Elena, che nel rondò conclusivo esprimerà la propria gioia in un'ebbrezza di canto che è stordimento dell'anima, al limite della follia.
Quella follia che aveva appena alitato nelle romantiche aure de La donna del lago di Rossini, soffia, sospinta da uno sconvolgente vento di passioni, nei castelli scozzesi di Ravenswood e Wolferag, dove si svolge la patetica vicenda di Lucia di Lammermoor, la protagonista dell'omonima opera di Gaetano Donizetti[6] su libretto di Salvatore Cammarano tratto anch'esso da un lavoro di Walter Scott (The Bride of Lammermoor), rappresentata per la prima volta al San Carlo di Napoli il 26 settembre 1835.


In quest'opera Donizetti offre al teatro melodrammatico l'esemplare idealizzazione romantica del fatale tòpos "amore e morte".
Qui le passioni si agitano e infuriano in commossa, equilibrata eloquenza drammatica e il sentimento d'amore sa elevarsi, per virtú poetica, in una zona di castità luminosa e sgomenta.
Nella cavatina "Regnava nel silenzio", che ora andrebbe ascoltata , la protagonista (il soprano Johan Sutherland), in attesa di incontrare l'amato Edgardo, racconta alla confidente, Alisa, di aver visto nella fontana lì accanto, nel giardino di Ravenswood, l'ombra di una castellana uccisa tempo addietro in una oscura vicenda d'amore e di sangue.
L'ombra sembrava chiamarla a sé, ma poi, come recitano i versi del librettista Cammarano, «ratta si dileguò e l'onda pria si limpida di sangue rosseggiò».
Il triste presagio non distoglie tuttavia Lucia dal fatale amore per il nemico della propria famiglia, Edgardo.
La forza di quel sentimento la colloca al di sopra di ogni logica umana, in una sfera ignara di ostacoli, simboleggiata musicalmente nella cabaletta "quando rapito in estasi" che conclude la scena.

I contenuti, le occasioni letterarie che, attraverso la scoperta di strati finora inesplorati del sentimento, faceva sgorgare nei compositori romantici la naturale vena d'invenzione melodica il cui slancio lirico riassorbiva, in una superiore catarsi artistica, gli elementi piú scopertamente passionali della vicenda drammatica, rimangono invece al loro stato iniziale, cioè di dualismo fra contenuto e forma, nell'opera di Hector Berlioz[7]


Tale almeno è l'opinione della maggior parte dei musicologi moderni, che io personalmente accolgo perché offre una spiegazione logica del disagio, del senso d’insoddisfazione, del sottile malessere che si prova all'ascolto della musica del compositore francese, pur nell'ammirata commozione suscitata dallo smagliante timbro e dal sorprendente gioco dei volumi fonici che la caratterizzano.
Nella predetta impostazione critica il presunto Romanticismo di Berlioz sarebbe un luogo comune che, come scrive Fedele D'Amico, s’inserisce in «un'immagine del Romanticismo desunta da alcuni aspetti del romanticismo letterario, [cioè] l'amore per il macabro, per il grottesco, per il gesto magniloquente, per le pose byroniane e gli atteggiamenti esibizionistici».
In effetti, Berlioz fu soprattutto un maestro della strumentazione (eguagliato, ottant’anni dopo, da Richard Strauss) e del colore orchestrale, subordinando ogni altro mezzo musicale a questo effetto e lasciandosi interamente guidare ad esso dalla propria immaginazione, come nella Sinfonia fantastica op. 14, il cui programma (una specie di sinopia, scritta dallo stesso autore per la prima trionfale esecuzione del 5 dicembre 1830) narra la storia - chiaramente ispirata dai romanzi di François René de Chateaubriand[8] - di un giovane artista travolto dalla cosiddetta "vague des passions" (“onda delle passioni”), rivissuta in una serie di cinque visioni di un fumatore di oppio: ora appassionate, ora elegiache, ora grottesche.
Dalla Sinfonia fantastica op. 14, dovremmo ascoltare, dall’orchestra della RAI di Torino diretta da Sergio Celibidache, il frammento finale della quinta visione: “Sogno di una notte di Sabba”.


Di un altro sogno musicale, questa volta a sfondo fiabesco, è autore il compositore, direttore d'orchestra, pianista e organista tedesco, Felix Mendelssohn Bartholdy [9].
Nato da un'aristocratica famiglia di origine ebraica, Felix visse l'infanzia nell'ambiente intellettuale della metropoli berlinese.
Nei primi anni di vita Felix ricevette l'istruzione direttamente dai genitori: francese e aritmetica dal padre; tedesco, letteratura, belle arti e pianoforte dalla madre.
Ben presto rivelò la sua disposizione per la musica; all'età di nove anni prese parte al suo primo concerto, una esibizione di musica da camera, suonando in modo impeccabile il difficile Concerto militare di Jan Ladislav Dussek.
Si rivelò ben presto un compositore prolifico; all'età di tredici anni aveva già al suo attivo uno svariato numero di operette, musica da camera e pianistica e, a quattordici anni, le sue prime dodici sinfonie per archi.
Nel 1826, all’età di diciassette anni, compose l'Ouverture op. 21, ripresa nel 1843, su commissione del re di Prussia Federico Guglielmo IV, e completata nelle Musiche di scena op. 61 per il Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare.
L’ouverture termina con la celeberrima Marcia nuziale, diventata la colonna sonora preferita nei riti matrimoniali, che oggi vi farò vedere nella versione coreografica di George Balanchine, rappresentata per la prima volta dal New York City Ballet il 17 gennaio1962, qui ripresa dalla registrazione di un allestimento messo in scena (nel periodo maggio – giugno 2003) al Teatro Arcimboldi di Milano dai complessi scaligeri diretti da Nir Kabaretti.


Coetaneo di Felix Mendelssohn, il polacco Fryderyk Chopin[10].
Dalla natia Varsavia, approdò, nel 1830 a Parigi; la Parigi di Rossini, Berlioz, Paganini e Liszt, in cui si affermò come pianista e compositore.
Chopin è infatti l'unico compositore nella storia della musica la cui figura possa essere studiata per intero attraverso la sua produzione per pianoforte, tanto da giustificare chi afferma che la sua musica è la “voce del pianoforte”.
L'impressione fondamentale che si ricava dall'ascolto della sua musica è che Chopin usi la tastiera per creare nuove armonie, aggregazioni di suoni simili a macchie in cui le tradizionali regole della tonalità non siano però del tutto abolite, ma sospese.
Di qui l'innesco, nei confronti di questa musica, di un processo inverso a quello verificatosi per l'opera di altri compositori romantici: cioè la ricerca di ispirazioni letterarie che permettessero di spiegare - come afferma il maestro Piero Rattalino - in termini extra-musicali le sue strane combinazioni di suoni che uscivano dal contemporaneo concetto di musica.
E si costruirono cosí poemi di morte sulla Sonata in si bemolle minore op. 35 (quella della famosa “marcia funebre”), storie di streghe e coboldi (o gnomi) sullo Scherzo n. 3 in do diesis minore op. 39; fu tirata in ballo la caduta di Varsavia, assediata dai russi nel settembre 1831, per lo Studio n. 12 in do minore op. 10, oppure si invocò la tristezza d'amore per l'altro Studio n. 3 in mi maggiore (sempre dall’op.10)...
Si volle udire il suono di campane stonate in una landa polacca nel Notturno n. 2 in mi bemolle maggiore, o il rumore cadenzato di una goccia d'acqua sul tetto della Certosa di Valldemossa, nell'isola di Maiorca, nell'altro Notturno n. 15 in re bemolle maggiore...
E l'elenco potrebbe continuare a lungo; segno evidente della grande popolarità di questo compositore che per la maggior parte degli amatori è il rappresentante piú significativo del Romanticismo musicale, anche se in realtà, come tutti i grandi musicisti di ogni tempo, egli fu un classico per il sorvegliato e puntiglioso senso critico, il rigore della forma e della misura.
Dal Romanticismo egli prese lo slancio, la passione, l'ardore febbrile, la profonda introspezione, i legami con le tradizioni della sua gente.
Uno degli esempi piú evidenti dell'interesse di Chopin per l'arte popolare, i miti ancestrali, l'epopea nazionalistica del popolo polacco, lo troviamo nelle sue ballate.
Il termine ballata non era mai stato fino allora adoperato per una composizione strumentale, ma soltanto per composizioni per canto e pianoforte, e si vuole che Chopin l'abbia scelto in relazione a dei componimenti letterari del connazionale Adam Michiewicz che egli conosceva fin dalla sua giovinezza.
«Non vi è musica senza pensieri riposti», era solito dire Chopin, e questo ci fa capire come le ballate di Michiewicz, in riferimento alle sue, debbano intendersi nel senso di pensiero riposto, di clima emotivo che dà luogo all'atto creativo indipendente, senza alcuna precisa corrispondenza fra il racconto da una parte e, dall'altra, la musica.
Dovremmo ascoltare ora, dal pianista Arturo Benedetti Michelangeli, un frammento della piú popolare delle ballate di Chopin, quella in Sol minore n. 1 op. 23.


Un altro pianista-compositore, appartenente a quella che Piero Rattalino definisce «la legione straniera dei musicisti» che tra il 1820 e il 1830 calava su Parigi, è l'ungherese Franz Liszt[11].
Per la sua natura faustiana, sempre alla ricerca di novità, e per le sue conoscenze dovute a rapporti con vari ambienti culturali (ebbe contatti con Berlioz, Hugo, Lamartine, Heine, Delacroix) Liszt ha arricchito il linguaggio musicale del suo tempo e, per l'originalità dei suoi procedimenti, è da annoverarsi fra i maggiori innovatori dell’Ottocento in campo melodico e armonico.
Ha composto ogni genere di musica, ma soprattutto egli è stato compositore di musica per pianoforte.
Per cogliere nel suo complesso l'importanza della sua opera pianistica, bisogna ricordare che Liszt era dotato di un eccezionale virtuosismo.
In possesso di una tecnica prodigiosa, trascendente, al limite, e forse oltre, le possibilità esecutive degli strumenti dell'epoca, era capace di passare dalla dolcezza piú tenera alla forza piú magistrale, tale da far suonare il pianoforte come un'intera orchestra.
Questo suo virtuosismo condizionò in un certo senso lo stile delle sue composizioni con l'audacia dell'armonia e del ritmo, la rottura della metrica tradizionale attraverso la tecnica del rubato, il sentimentalismo carico di espressione.
Insomma una originalità di linguaggio e una libertà formale che danno l'impressione di improvvisazioni nate dal fuoco dell'ispirazione.
Da buon romantico Liszt ebbe l'ambizione di tradurre in musica successioni di stati d'animo o di dipingere con i suoni quadri di paesaggi e di fenomeni della natura e, perciò, sulla traccia della musica a programma, indicata da Berlioz con la sua Sinfonia fantastica, è stato il creatore del genere del poema sinfonico.
Ed è dal suo poema sinfonico Les Prèludes (d'après Lamartine), il cui titolo fa riferimento all'ode Nouvelles méditations poétiques del poeta romantico francese Alphonse de Lamartine[12]che ora dovremmo ascoltare, nella interpretazione dell’Orchestra Filarmonica della Scala diretta da Riccardo Muti, l'episodio conclusivo, nei tempi: Allegro marziale, Andante maestoso.
È l'ultima, trionfale trasformazione a cui arriva la cellula tematica iniziale attraverso numerose variazioni e frammentazioni.
Vero poema di suoni in uno sviluppo di linee melodiche cangianti che si configura come una perifrasi della prefazione alla stampa della partitura che inizia con queste parole:
«Che altro è la nostra vita, se non una serie di preludi a quell'inno sconosciuto, la cui prima e solenne nota è intonata dalla morte?»:

Giunto al termine di questo mio disarticolato procedere fra temperie romantiche letterarie e musicali, mi accorgo di aver messo insieme una tale varietà di elementi intellettuali ed emotivi che sarebbe fatica inutile cercare di ricavarne una formula per una visione unitaria e schematica del Romanticismo.
Compito questo comunque impossibile, perché fu peculiare di quel movimento l'assorbire incessantemente materiale dalle piú diverse fonti e plasmare tutto in unità sempre nuove.
Ciononostante, credo che mi sia concesso sperare di essere riuscito, almeno per qualche istante, a destare sensazioni del genere di quelle felicemente riassunte dal protoromantico tedesco Wilhelm Heinrich Wackenroder, nella frase che mi accingo a leggervi:
«E cosí io chiudo gli occhi a tutte le lotte di questo mondo, e mi ritiro nel regno sereno della musica, come in un regno di fede, dove tutti i nostri dubbi e le nostre afflizioni si perdono in un mare echeggiante di note».



[1] Bonn 1770 – Vienna 1827            
[2] (Vienna 1797 - ivi 1828)
[3] Edimburgo 1771 - Abbotsdorf nel 1832.
[4] Pesaro 1792 – Parigi 1868
[5] Che si riferisce a Ossian, leggendario guerriero e bardo gaelico che si suppone vissuto in Scozia nel III secolo.
[6] Bergamo 1797 – ivi 1848.
[7] Isère 1803 - Parigi 1869. 
[8] Saint Malò 1768 – Parigi 1848.
[9] Amburgo 1809 – Lipsia 1847.

[10] Varsavia 1810 – Parigi 1849.
[11] Raiding 1811 - Bayreuth 1886.
[12] Mâcon 1790 – Parigi 1869.

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